Anniken, blogger contro H&M: “Benvenuti nella fabbrica dell’inferno”
17 Ottobre 2014 - di Claudia Montanari
OSLO – Si chiama Anniken Jørgensen, ha solo 17 anni ma un grande obiettivo: cercare di divulgare al mondo intero le disumane e massacranti condizioni di lavoro di milioni dipendenti nelle fabbriche tessili delle più grandi catene del low cost, H&M in primis.
Tutto è iniziato quando il quotidiano norvegese Afterposten ha deciso di realizzare “Sweat shop”, un docu-reality che aveva l’obiettivo di raccontare come e dove vengono realizzati i capi di una delle catene low cost più famose al mondo, H&M. Benvenuti nelle fabbriche dell’inferno: il progetto ha tirato fuori una verità sconcertante che i più fanno finta di non conoscere.
Tuttavia H&M ha immediatamente tenuto a precisare che la realtà dei fatti è ben diversa da come raccontato dai giovani blogger. H&M ha scritto infatti in una nota:
“L’immagine ritratta di H&M, nel programma web-TV è imprecisa e nessuno degli stabilimenti visitati nel programma produce capi di abbigliamento per H&M. Né i produttori né le ragazze ci hanno contattato per chiedere informazioni quando hanno registrato il programma. Ma è importante che i nostri clienti e gli azionisti abbiano un corretto quadro della nostra azienda e delle responsabilità che si prendiamo.
Abbiamo da molti anni fatto dei grandi sforzi nei paesi di produzione esistenti per migliorare le condizioni di lavoro e rafforzare i diritti dei lavoratori. H&M ha uno dei più alti standard di sostenibilità nell’industria al mondo nei confronti dei propri fornitori. È da sempre nella nostra visione aziendale che i lavoratori dell’industria tessile debbano vivere con i propri salari. Tutto ciò è evidenziato anche nel nostro codice di condotta“
COSA è SUCCESSO?
Tre giovani fashion blogger norvegesi sono stati inviati in Cambogia, uno dei paesi in cui l’azienda produce i capi, vivendo per 1 mese a stretto contatto con la realtà e con le condizioni di lavoro di migliaia di dipendenti dei laboratori tessili in cui vengono realizzati i capi. I tre blogger hanno vissuto e lavorato nelle stesse condizioni, con gli stessi orari massacranti e disumani, e dormito negli stessi posti fatiscenti.
Il risultato è stato un docu-reality toccante, amaro e tragico. E, purtroppo, vero.
L’ESPERIENZA:
“Da dove vengono i vestiti che indossiamo ogni giorno e che spesso acquistiamo per pochi euro nei negozi delle catene low cost?”: era questa la domanda di fondo che si era posta il progetto realizzato da Afterposten.
I capi che siamo abituati a vedere scintillanti nelle vetrine dei negozi delle nostre vie sono prodotti in gran parte nei laboratori tessili dei paesi in via di sviluppo, diventati ormai vero e proprio terreno di conquista per i brand della moda che delocalizzano la produzione dei capi di abbigliamento nei paesi del sud-est asiatico.
Ma di fronte ad un “aumento” dei salari in Cina o in Vietnam, le multinazionali del tessile hanno cominciato a migrare verso paesi come la Cambogia e il Bangladesh, dove i salari sono a livelli tra i più bassi al mondo e dove i roghi nelle fabbriche fanno migliaia di morti nell’indifferenza generale.
Che molti marchi low cost, da Zara a Gap passando per Primark e, appunto, H&M, siano al centro di polemiche per via delle condizioni disumane in cui lavorano gli operai nei laboratori tessili non è una novità. Tuttavia, quello che più di tutto lascia senza parole è la sfacciata omertà in merito alla questione.
Uno scenario drammatico che non viene scalfito nemmeno dal lavoro dei tre blogger norvegesi che hanno realizzato “Sweat Shop” cui è stato “chiesto” (per non dire imposto) di non svelare tutto ciò a cui hanno assistito durante quel mese nel laboratori tessili in Cambogia.
Ma la giovane Anniken non aveva dubbi: le condizioni disumane al limite della schiavitù dovevano essere raccontate a tutto il mondo ed ha così deciso di rivelare la verità, imbarcandosi da sola in una campagna di sensibilizzazione per far sapere al mondo delle reali condizioni dei lavoratori tessili cambogiani.
Così la blogger ha cominciato a snocciolare sul proprio blog nomi e fatti. Tutto ciò a cui aveva assistito e provato in quei terribili giorni in Cambogia, una realtà accuratamente censurata dallo stesso Afterposten. Per mesi, nonostante le obiezioni dei tre blogger, il quotidiano sarebbe infatti riuscito a mantenere il silenzio. Il momento esatto in cui Anniken ha deciso di parlare è stato quando si è resa conto di essere sola: nessuno, stampa norvegese compresa, sarebbe stato disposto ad ascoltare e raccontare al mondo la sua verità:
“È incredibilmente frustrante che una grande catena di abbigliamento abbia così tanto potere da spaventare e condizionare il più importante quotidiano della Norvegia. Non c’è da meravigliarsi: il mondo è così. Ho sempre pensato che nel mio paese ci fosse libertà di espressione. Mi sbagliavo“
Così Anniken ha sfruttato tutte le sue poche armi: il blog, i video e i tam tam del web. E la sua storia ha cominciato a diffondersi prima in Norvegia, poi in Europa e in tutto il mondo, diventando virale insieme alla sua iniziativa di boicottare H&M e i suoi abiti.
Ha risolto qualcosa, Anniken? Per ora le condizioni dei lavoratori in Cambogia non sono certo cambiate. Tuttavia è riuscita a fare in modo che la stessa azienda chiedesse di poterla incontrare nella sede principale di Stoccolma annunciando anche di aver preso provvedimenti nei confronti dei laboratori tessili a cui commissiona la realizzazione degli abiti, affinché si impegnassero a migliorare le condizioni di vita dei propri operai.
Quel viaggio in Cambogia ad Anniken ha cambiato la vita. E lei spera che, grazie al suo lavoro, qualcosa possa cambiare anche nelle condizioni di vita del lavoratori di quelle fabbriche tessili dell’inferno.