Cannes, Wang Bing porta sullo schermo l’inferno della fast fashion in Cina
19 Maggio 2023 - di Claudia Montanari
Cannes, il regista Wang Bing porta in Concorso la drammatica realtà dei giovani cinesi che lavorano nel mondo del fast fashion. Un documentario choc che mette in luce la vita dei giovani schiavi del tessile in Cina.
La contrattazione è tra 6,5 e 7 yuan a capo confezionato, 1 yuan è pari a 0,13 centesimi di euro, dunque per una maglietta, un pantaloncino o quel che sia siamo a 0,84 centesimi di euro. Ci sono modelli più complicati per seguire la moda dei veli, dei ricami applicati, delle balze, ma il boss non cede, la trattativa è con il sorriso ma più di 0,25 di yuan non si strappa.
È l’inferno dei laboratori tessili in Cina quello che mostra senza drammi ma anche senza filtri Jeunesse (Le Printemps), il lungo documentario del regista cinese Wang Bing che il festival di Cannes ha selezionato nel concorso per la Palma d’oro.
Non c’è nulla che non si sapesse, o meglio non si immaginasse, perché vedere sul grande schermo per oltre 3 ore quello che accade nelle giornate di questi lavoratori è duro da digerire.
Realizzato tra il 2014 e il 2019, da quello che è considerato tra i massimi documentaristi (anche se ora firma il nuovo Man in Black) è una immersione totale nel mondo che porta globalmente la moda confezionata nei nostri negozi e in quelli di qualunque altra parte.
La dura vita degli schiavi del Fast Fashion
La capitale del tessile è Zhili e quello che ci fa scoprire il film è il modo in cui si fabbricano la moda fast fashion. Non sono grandi fabbriche ma 18mila piccoli laboratori che sfornano pacchi compatti di ogni abito di sorta, pronti ad entrare nei container per la distribuzione.
Ci sono i padroncini che ricevono il modello da produrre e che hanno tempi di consegna ferrei, a loro volta commissionano il lavoro agli operai. Sono giovanissimi, tanti minorenni, che in stanze piccole disseminate nel retrobottega o nei palazzi, lavorano a ritmi incredibili segnando su un quadernino quanti pezzi vanno a consegnare al boss e quindi quanti soldi ricevere, mai abbastanza, nonostante i loro sforzi.
Il ritmo lo danno le macchine da cucire, loro lì chini infilano un pezzo di stoffa via l’altro quasi non riesci a stargli dietro con lo sguardo tanto sono veloci. Mentre sono lì concentrati come automi ad assemblare le stoffe parlano, scherzano, ridono, mangiano, si fidanzano, si rincorrono, litigano, fanno pace.
E dopo il turno che copre la giornata intera si ritirano nei condomini alveare, facendo slalom tra i loro stessi rifiuti. Entrano in camere sporche tutte uguali, con letti a castello. Non ci sono cucine, tutto viene comprato fuori e portato su a tarda sera per cena in box di cartone, l’unica cosa che si preparano è il riso nella pentola elettrica e litri di tè.
È una vita terribile, dove non puoi ammalarti, non puoi mettere su famiglia, tanto meno fare figli, perchè se non cuci non ti pagano. Si cambia laboratorio facilmente, sperando che il boss accanto nella stessa strada chiamata con ironia Happiness Road, via della felicità, offra qualche centesimo in più.
Dal Rana Plaza poco è cambiato
E pensi che per quanto si dica dalla tragedia del Rana Plaza giusto 10 anni fa, il più grave disastro dell’industria della moda con oltre 1300 morti, davvero poco è cambiato. In tanta bruttezza, di ambienti, di lavoro, di situazione, vince su tutto la giovinezza. La vitalità di questi schiavi, la loro voglia di vita e di divertirsi, vince su tutto ed è impressionante.
Pensano a fare serata nonostante le 12 ore di lavoro, ad uscire insieme, a comprarsi l’ultimo iPhone ovviamente, a vestirsi alla moda. Sono ragazzi, adolescenti o poco più, la nuova generazione cinese, non quella ricca delle grandi città ma quella rurale povera che abbandona i villaggi, disposta a tutto.
Non hanno lavatrici, non hanno armadi, appendono i vestiti fuori le finestre e il catino del moplen è la loro toilette, eppure vivono e sorridono. È la leggerezza dell’età, non senza malinconie, non senza voglia di cambiare vita e per questo la speranza resta. Uno su 300mila migranti interni ed esterni che lavorano in quell’inferno, ce la farà.