Storia di Elisabetta, licenziata: “Rifiutai sesso a tre con capo e amante”
28 Novembre 2013 - di Claudia Montanari
ROMA – Licenziata perché ha rifiutato una proposta di sesso a tre con il direttore della sua azienda e l’amante. La drammatica vicenda, raccontata da Tgcom24, ha come protagonista l’ingegnere Elisabetta Ferrante, informatica presso una multinazionale di Torino, e impegnata a difendersi su sei fronti legali per far valere i propri diritti di donna e di lavoratrice.
Come si legge su Tgcom il calvario di Elisabetta Ferrante è iniziato nel 2000 quando un nuovo direttore di azienda si è mostrato particolarmente interessato a lei:
“Complimenti e avances esplicite da subito, davanti ai colleghi ma anche in privato, durante le riunioni ad arte prolungate fino a notte inoltrata”
Poi, l’arrivo di una trasferta in Olanda e la lapidaria proposta, che è arrivata sulla testa di Elisabetta come una doccia fredda: la richiesta sessuale da parte del direttore insieme alla sua amante.
Elisabetta racconta a Tgcom24:
“Avevo 40 anni, due figli e pensavo di far carriera grazie alle mie capacità, queste proposte non erano proprio nelle mie corde. Rifiutai il sesso e fu la mia rovina. Di ritorno dal viaggio mi sono trovata senza ufficio, con i documenti in un scatolone, una scrivania contro il muro, senza mansioni, senza collaboratori e via via senza i progetti ai quali stavo lavorando”.
Scuse formali da parte del direttore, prime civili lamentele, e poi immediatamente un improvviso trasferimento in un’altra sede:
“In quel momento sono crollata: ho avuto una prima crisi di panico e mi sono smarrita con l’auto. Non dormivo e non mangiavo più. I medici del lavoro hanno capito subito che si trattava di mobbing aziendale“.
Il peggio però doveva ancora arrivare. Sprofondata nell’abisso dell’incertezza, Elisabetta entra in malattia e a seguito di quel periodo viene licenziata:
“Ho deciso di far causa alla mia azienda, ma non è stato facile andare contro un colosso così grande, radicato nella città e capace di sconvolgere l’esistenza personale e familiare. Alla fine sono stati i giudici della Cassazione a darmi ragione e a confermare l’ipotesi di mobbing. La sentenza è arrivata nel 2008, sono stata reintegrata sul posto di lavoro (anche se con una mansione inferiore a quella che ricoprivo un tempo) ma il risarcimento non l’ho ancora visto: i giudici del tribunale incaricato di determinarlo hanno disatteso le linee guida dettate dalla Cassazione e l’incubo non è ancora finito”.
Certo, i tempi lunghissimi dei processi e l’enorme costo spesso scoraggiano i lavoratori ad intraprendere misure legali contro capi molestatori o contro casi di mobbing. La stessa Elisabetta ha spiegato:
“Il processo non se lo possono permettere tutti, è vero. Io sono rimasta senza impiego dal 2005 all’inizio del 2009 e soltanto per la causa sul mobbing ho speso 100 mila euro tra primo e secondo grado di giudizio. Una cosa però, mi permetto di consigliarla a chi è vittima di abusi e ha paura: ‘Reagite’, magari rivolgendovi allo ‘Sportello dei diritti‘, ma fate sentire la vostra voce, i vostri diritti, la vostra denuncia”.
Quello di Elisabetta è stato inquadrato come un caso di “mobbing”, ma cosa è il mobbing nello specifico? Si legge su Tgcom:
“Il termine definisce le condotte aggressive e frequenti nei confronti di un lavoratore compiute dal datore di lavoro, superiori o colleghi: una forma di “terrore psicologico” per emarginarlo o escluderlo. Le vittime di mobbing subiscono una serie di vessazioni diverse che vanno dal demansionamento alla completa inattività; dall’assegnazione di eccessivi carichi di lavoro alle frasi ingiuriose e alle aggressioni verbali; dall’assegnazione a turni e mansioni penose alle critiche continue e umilianti; dall’isolamento dei colleghi al collocamento in postazioni di lavoro inidonee; dal trasferimento illegittimo al distacco illegittimo, dalla minaccia e dall’esercizio illegittimo del potere disciplinare all’abuso di controlli; dall’esclusione ingiustificata da benefici e incarichi alla sottrazione di strumenti di lavoro; dal rifiuto delle ferie o la loro sistematica collocazione in periodi non graditi al rifiuto immotivato di permessi. Per finire con il licenziamento ingiustificato”
Non sono invece considerate mobbing altre attività, tuttavia spiacevoli, come discriminazioni, stress, straining, stalking.