Fermiamo il femminicidio, la strage delle innocenti
1 Maggio 2012 - di marina_cavallo
MILANO – Femminicidio: con questa parola Gad Lerner ieri sera ha introdotto all’Infedele il tema, sempre tragicamente attuale, dell’uccisione delle donne da parte di uomini, molto spesso dai loro compagni: siamo ormai arrivati a 54 omicidi dall’inizio del 2012. E sull’argomento è intervenuta anche Lella Costa con una performance in cui ha “cantato” le donne e ha incitato gli uomini, quelli fra loro che non sono “carnefici”, ad essere loro i primi a denunciare tutti i comportamenti scorretti di cui sono testimoni perché solo così si potrà avere forse finalmente avere una inversione di tendenza.
Femminicidio è un neologismo coniato nel 2009 dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani, per condannare il Messico dopo la morte di 500 donne e la scomparsa di altrettante a Ciudad Juarez. Dallo scorso otto marzo questa lugubre e drammatica parola è stata usata anche in riferimento al nostro Paese da Rashida Manjoo, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne. «È la prima causa di morte in Italia per le donne tra i 16 e i 44 anni». Il femminicidio indica «ogni forma di discriminazione e violenza rivolta contro la donna in quanto donna». Violenza psicologica, sociale, fisica: una violenza continua, troppo spesso fino alla morte, che in Italia miete vittime a partire da «fattori culturali», come il lessico comune che descrive la donna oggetto di proprietà di uomini, «padre, marito e figli», che decidono della sua vita. «Con dati statistici che vanno dal 70% all’87%, la violenza domestica risulta essere la forma di violenza più pervasiva che continua a colpire le donne italiane» ha detto Rashida Manjoo.
Femminicidio (o anche Femmicidio) viene usato sempre più spesso in criminologia perché chi analizza i casi di donne morte ammazzate, ha bisogno di uno “strumento linguistico” per distinguere questi reati, e la loro infame specificità, dagli altri omicidi. In maniera sintetica, sono definiti femminicidi le uccisioni di donne compiute da uomini con movente di genere (che con riduttiva e fuorviante superficialità sono spesso descritte come “raptus di gelosia”, “delitto passionale”, o anche “uccisa per troppo amore”), cioè quando un uomo uccide una donna in quanto tale. Sono escluse le uccisioni che si verificano, invece, con moventi identificati e diversi dal quelli di genere.
Questa distinzione permette innanzitutto di isolare i casi e di contarli (e se li conti sono davvero tanti, nel mondo, in Europa come in America), ma anche di individuare le caratteristiche di un fenomeno particolarmente grave – perché implica addirittura l’assassinio della vittima – che si pone all’interno di una più ampia deriva di matrice culturale, che riguarda la discriminazione delle donne. L’uomo che compie un femminicidio non è tanto e solo il marito o il fidanzato, ma è un uomo che vede la “sua” donna come “un corpo che gli appartiene”, come un “oggetto” su cui esercitare un controllo diretto e un possesso assoluto, espresso nei fatti con violenza – fisica, psicologica, economica – che può arrivare fino al femminicidio, cioè all’annientazione fisica totale (“sei mia quindi anche la tua vita mi appartiene”). E la cosa è tanto più importante perché, sebbene femminicidio sia un termine poco “elegante”, è però necessario in quanto racchiude tutto il significato di un fenomeno che in un paese come il nostro – in cui il numero delle donne uccise con movente di genere dall’inizio dell’anno è 54! – è diventato emergenza nazionale.
Ancora oggi i femminicidi nei tribunali continuano a essere reati di serie B proprio perché valutati culturalmente come il caso estremo di una normale conflittualità di coppia, dove al limite del patologico “ci può scappare” che un uomo arrabbiato, geloso, ubriaco, ammazzi la moglie, la fidanzata, la ex. Se in Italia fosse stato dato più peso e ascolto all’allarme che da anni danno i centri antiviolenza sulla criticità italiana riguardo la violenza domestica, e quindi anche sui femminicidi, e se il Ministero degli Interni avesse autorizzato, come in altri paesi, un osservatorio specifico per analizzare e valutare questi casi, forse la parola femminicidio non sarebbe così estranea e non apparirebbe un “capriccio” linguistico.
Per questo Maria Gabriella Moscatelli presidente di Telefono Rosa, la storica associazione contro la violenza sulle donne, ha scritto al premier «Chiediamo al governo di farsi carico di questa situazione intollerabile. Servono risorse economiche e una Commissione straordinaria per fronteggiare questa tragedia. Sono queste le due condizioni senza le quali nessuna azione può realmente portare a dei risultati». Per la presidente «è evidente che strumenti, risorse e azioni al momento in atto non siano sufficienti». Fondi, certo. E leggi. E impegno. Perché le donne non siano lasciate sole. Soprattutto serve una rivoluzione culturale. Ma bisogna fare in fretta. Subito.