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8 Marzo, Cesvi: basta violenza sulle donne afghane

ROMA – Non per tutte le donne del mondo l’8 marzo è una giornata di festa. In un paese come l’Afghanistan essere donna significa ancora vivere in condizioni di marginalità sociale, economica e culturale e, soprattutto nelle campagne, non essere libere ma ‘appartenere’ a padre o mariti. Lo denuncia il Cesvi, dal 2011 presente in Afghanistan, e dal 2008 impegnato per l’inserimento sociale e professionale dei soggetti più vulnerabili. Il 60% dei beneficiari dei progetti Cesvi sono donne che hanno seguito corsi di formazione professionale e costituito due cooperative sociali dove lavorano regolarmente come sarte, tessitrici di tappeti, fotografe, estetiste, parrucchiere e videomaker. Molte di loro, grazie a una videocamera, hanno trovato lavoro ed emancipazione.

“Grande successo hanno riscosso soprattutto i corsi di videomaking e fotografia – racconta Alessandra Tomirotti, responsabile di Cesvi in Afghanistan – in un Paese in cui quasi tutte le situazioni richiedono una separazione tra uomini e donne e in cui si investe molto negli eventi, come i matrimoni, le nostre videomakers stanno trovando largo impiego, riprendendo le cerimonie e i festeggiamenti femminili e producendo video di buona qualità”.

Per le donne afghane, infatti, l’emarginazione sociale, economica e culturale “dipende in larga misura dall’appartenenza etnica, dalla professione religiosa e dall’area geografica in cui vivono”, aggiunge Tomirotti. “Le città, come sempre – sottolinea – rappresentano un’oasi privilegiata dove le opportunità e i servizi favoriscono le condizioni per una maggiore emancipazione femminile. Ma se ci si sposta nei villaggi, la situazione cambia drasticamente: attraversandoli non si incrocia alcuna donna per strada. Le donne afghane purtroppo non sono libere: da bambine appartengono al padre e ai fratelli, da spose al marito e da vedove ai figli maschi”.

Fra le belle storie di queste donne, quella di Aisultan, una delle beneficiarie Cesvi, quarta figlia femmina della famiglia, quasi una colpa nel contesto afghano: la madre infatti sperava di partorire un maschio. Aisultan è arrivata semi-analfabeta al centro di formazione professionale del Cesvi. La psicologa ha riscontrato da subito la sua estrema fragilità: ogni qual volta parlava della sua famiglia, scoppiava a piangere. L’inizio del corso di formazione in fotografia e videomaking ha avuto effetti molto positivi.

”Nonostante il suo basso livello di istruzione, Aisultan si è rivelata una ragazza molto intraprendente e desiderosa di imparare: è la ragazza che ha dimostrato maggiore passione ed una inclinazione naturale per le inquadrature. Le sue foto sono inconfondibili, con una forte vena di malinconia”, racconta ancora Tomirotti. Ora anche Aisultan fa parte della cooperativa e insieme alle colleghe ha già girato un video per il dipartimento del ministero degli Affari sociali. ”Per me la cooperativa sociale rappresenta non solo un mezzo per mantenere la nostra famiglia – racconta la ragazza – ma uno spazio fisico in cui ritrovarsi per discutere e promuovere forme di aggregazione sociale che ci aiutino ad uscire dall’isolamento sociale. Ora sogno che il video del mio matrimonio sia girato dalle mie colleghe amiche”.

‘Lavorare in Afghanistan, più che in ogni altro Paese implica un continuo sforzo di adattamento tanto più se sei una donna – conclude la responsabile Cesvi – Ma grazie al grande entusiasmo e partecipazione di queste donne tutto diventa più semplice: sognano un futuro diverso, sono consapevoli di essere il perno di questo cambiamento e che anche questi piccoli passi fanno parte di un percorso che le porterà lontano, verso un Paese più accogliente per le donne”.

 

Fonte: Adnkronos

Claudia Montanari

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