“Nella giungla con i maoisti indiani” di Arundhati Roy. Per capire chi sono
20 Marzo 2012 - di marina_cavallo
Nel 2010 Arundhati Roy ha seguito per alcune settimane i guerriglieri naxaliti nella giungla. Per capire chi sono, come vivono, che pensano. E sfatare molti luoghi comuni. Ecco il suo reportage pubblicato da Internazionale il 18 giugno 2010.
Le due righe scritte a macchina sul foglietto infilato sotto la mia porta in una busta sigillata confermano l’appuntamento con la Più Grave Minaccia per la Sicurezza Interna del paese. Sono mesi che aspetto loro notizie. Devo farmi trovare al tempio di Ma Danteshwari, nel Chhattisgarh, in quattro orari diversi di quattro giorni diversi. Questo ci coprirà le spalle in caso di maltempo, gomme a terra, blocchi del traffico, scioperi dei trasporti e semplice sfortuna. Sul biglietto c’è scritto: “Il giornalista dovrà portare una macchina fotografica, il tika e un cocco. L’incaricato dell’accoglienza porterà un berretto, una copia in hindi di Outlook e alcune banane. Parola d’ordine: Namashkar Guruji”. Mi chiedo se l’incaricato si aspetti di incontrare un uomo. E se dovrei procurarmi dei baffi.
Ci sono molti modi per descrivere Dantewada. È un ossimoro. È una città di confine nel cuore dell’India. È l’epicentro di una guerra. È una città sottosopra e alla rovescia. A Dantewada i poliziotti girano in borghese e i ribelli in uniforme. Il responsabile del carcere è in carcere. I detenuti sono liberi (trecento di loro sono evasi dal carcere della città vecchia due anni fa). Le donne vittime di stupro sono in stato d’arresto, mentre i loro stupratori tengono comizi nel bazar.
Sull’altra riva del fiume Indravati, nella zona controllata dai maoisti, c’è il posto che la polizia chiama “Pakistan”. Lì i villaggi sono vuoti, ma la foresta è piena di gente. I bambini, che dovrebbero essere a scuola, scorrazzano abbandonati a loro stessi. Nei deliziosi villaggi in mezzo alla foresta gli edifici scolastici in cemento o sono stati fatti esplodere e giacciono in un cumulo di macerie, o sono pieni di poliziotti. La sanguinosa guerra che si combatte nella giungla è una guerra di cui il governo indiano va orgoglioso, ma sottovoce.
L’operazione Green hunt (caccia verde) è stata confermata e negata insieme. Il ministro degli interni indiano (e gran commissario della guerra) P. Chidambaram dichiara che non esiste, che è una creazione dei mezzi d’informazione. Eppure sono stati stanziati fondi consistenti e mobilitate decine di migliaia di soldati. E anche se il teatro di guerra è la giungla dell’India centrale, il conflitto avrà conseguenze gravi per tutti noi. Se i fantasmi sono gli spiriti di qualcuno, o di qualcosa, che ha cessato di esistere, allora forse la nuova autostrada a quattro corsie che taglia la foresta è l’opposto di un fantasma. Forse è il presagio di qualcosa che verrà.
I nemici che si fronteggiano nella foresta sono diversi e impari in quasi tutti i sensi. Da una parte c’è un imponente esercito paramilitare armato con i soldi, la potenza di fuoco, i mezzi di comunicazione e la hubris di una superpotenza in ascesa. Dall’altra ci sono dei semplici contadini con armi tradizionali e sostenuti da un esercito di guerriglia maoista superbamente organizzato e fortemente motivato, con alle spalle un’incredibile storia di violenza e ribellione armata.
I maoisti e i paramilitari sono avversari di lunga data, i loro vecchi avatar si sono combattuti numerose altre volte in passato: nel Telangana negli anni cinquanta, nel Bengala occidentale, nel Bihar, nella città di Srikakulam in Andhra Pradesh alla fine degli anni sessanta e negli anni settanta, e poi di nuovo in Andhra Pradesh, Bihar e Maharashtra dagli anni ottanta fino ai giorni nostri. Ognuno conosce le tattiche dell’altro e ha studiato con attenzione i suoi manuali di combattimento. Ogni volta sembrava che i maoisti (o i loro avatar precedenti) fossero stati non solo sconfitti, ma addirittura sterminati fisicamente. E ogni volta riemergevano più organizzati, più determinati e più influenti che mai. Oggi il fronte della rivolta si è esteso alle foreste ricche di minerali di Chhattisgarh, Jharkhand, Orissa e Bengala occidentale, patria di milioni di adivasi, gli aborigeni dell’India, e terra promessa per le grandi aziende.
Per la coscienza liberale è più facile credere che la guerra nelle foreste sia una guerra tra il governo indiano e i maoisti, quelli che definiscono le elezioni una truffa e il parlamento un porcile, e che hanno dichiarato apertamente la loro intenzione di rovesciare lo stato indiano. È comodo dimenticare che le tribù dell’India centrale hanno una lunga storia di resistenza che risale a molti secoli prima di Mao (ovvio, altrimenti non esisterebbero). Gli ho, gli oraon, i kol, i santal, i munda e i gond si sono ribellati più volte: contro gli inglesi, contro gli esattori e gli strozzini. Le rivolte erano represse senza pietà, in migliaia venivano uccisi, ma la gente non si arrendeva. Anche dopo l’indipendenza, gli indigeni sono stati al centro della prima rivolta che potremmo definire maoista, nel villaggio di Naxalbari, nel Bengala occidentale (dov’è nata la parola “naxalita”, oggi usata come sinonimo di maoista). Da allora, la politica naxalita è stata inestricabilmente legata alle rivolte tribali, cosa che la dice lunga sia sugli indigeni sia sui naxaliti.
Questo retaggio di ribellioni ha lasciato dietro di sé un popolo pieno di rabbia, deliberatamente isolato ed emarginato dal governo. La costituzione dell’India, caposaldo morale della sua democrazia, è stata adottata dal parlamento nel 1950. Un giorno tragico per gli adivasi. La costituzione ratificava la politica coloniale e assegnava allo stato la gestione dei territori tribali. Da un giorno all’altro, trasformava gli aborigeni in occupanti abusivi della loro terra, negava il loro diritto sui prodotti della foresta, criminalizzava un intero sistema di vita. In cambio del diritto di voto, li derubava del diritto alla sopravvivenza e alla dignità. con un crudele colpo di mano il governo ha cominciato a usare contro di loro la loro stessa miseria. Ogni volta che si trattava di dislocare una popolazione numerosa – per costruire le dighe, per i progetti d’irrigazione o per fare spazio alle miniere – il governo parlava di “reintegrare gli indigeni nella società” o di renderli partecipi dei “frutti della modernità”. Delle decine di milioni di sfollati (più di trenta milioni solo per le grandi dighe) a causa del “progresso” indiano, la gran parte sono indigeni. Quando il governo comincia a parlare del bene degli indigeni bisogna preoccuparsi.
L’ultimo a parlarne è stato il ministro degli interni Chidambaram, che ha dichiarato di non volere che gli indigeni vivano in “culture da museo”. Eppure, il benessere delle popolazioni tribali non sembrava essere in cima alle sue priorità quando faceva l’avvocato e rappresentava gli interessi delle grandi compagnie minerarie. Quindi potrebbe essere una buona idea indagare sui motivi di questa sua nuova preoccupazione.
Nel corso degli ultimi cinque o sei anni, i governi di Chhattisgarh, Jharkhand, Orissa e Bengala occidentale hanno firmato centinaia di protocolli d’intesa con aziende – contratti per diversi miliardi di dollari e tutti segreti – per la costruzione di acciaierie, fabbriche di spugna di ferro, centrali elettriche, raffinerie di alluminio, dighe e miniere. Perché questi protocolli si traducano in soldi veri, le comunità tribali devono essere trasferite.
Da qui la guerra.
Quando un paese che si definisce democratico dichiara apertamente una guerra dentro i suoi confini, questa guerra cos’è? La resistenza ha qualche probabilità di successo? Dovrebbe averla? Chi sono i maoisti? Sono solo nichilisti violenti che impongono un’ideologia superata a gruppi tribali, guidandoli verso un’inutile rivolta? Quali lezioni hanno imparato dalla loro esperienza passata? La lotta armata è intrinsecamente antidemocratica? La “teoria del sandwich” – secondo cui gli indigeni sono vittime del fuoco incrociato tra stato e maoisti – è corretta? I maoisti e gli indigeni sono due categorie completamente separate, come ci viene detto? I loro interessi convergono? Hanno imparato qualcosa gli uni dagli altri? Si sono influenzati a vicenda?
Il giorno prima che partissi mi ha chiamato mia madre. Aveva una voce assonnata. “Stavo pensando”, mi ha detto, “che quello di cui questo paese ha bisogno è la rivoluzione”. Un articolo su internet dice che il Mossad sta addestrando trenta superpoliziotti indiani in tecniche di omicidi mirati, che dovrebbero servire a “decapitare” l’organizzazione maoista. Sulla stampa si parla delle nuove tecnologie che l’India ha acquistato da Israele: telemetri laser, visori termici e droni senza pilota, tanto popolari nell’esercito americano. Armi perfette da usare contro i poveri.
Il viaggio in auto da Raipur a Dantewada dura circa dieci ore, attraverso zone note per essere “infestate di maoisti”. Non sono parole dette a caso: infestare/infestazione sono termini che fanno pensare a malattie/parassiti. Le malattie vanno curate, i parassiti sterminati. I maoisti devono essere annientati. È il modo innocuo e strisciante con cui il linguaggio del genocidio s’insinua nel nostro vocabolario. Per difendere l’autostrada, le forze di sicurezza hanno reso “sicura” una fettuccia di foresta su entrambi i lati. Più all’interno c’è il regno dei “Dada log”. I Fratelli. I Compagni.
Alla periferia di Raipur, un grande cartellone pubblicizza il Vedanta cancer hospital (di proprietà dell’azienda per cui un tempo lavorava il nostro ministro degli interni). A Orissa, la Vedanta estrae bauxite e finanzia un’università. È il modo innocuo e strisciante con cui le compagnie minerarie s’insinuano nel nostro immaginario: i giganti buoni che hanno un cuore. Si chiama Rsi, responsabilità sociale d’impresa. Consente alle compagnie minerarie di essere come il leggendario attore ed ex primo ministro Nandamuri Taraka Rama Rao (noto in India come Ntr), a cui piaceva interpretare tutti i ruoli nei film mitologici in telugu, i buoni e i cattivi contemporaneamente.
L’Rsi maschera la vergognosa economia su cui si fonda il settore minerario indiano. Per esempio, secondo il recente rapporto LokAyukta (un’associazione che lotta contro la corruzione) sul Karnataka, ogni tonnellata di minerale di ferro estratto da una compagnia privata frutta circa 27 rupie al governo e cinquemila alla compagnia mineraria. Nel settore della bauxite e dell’alluminio la situazione è ancora più grave. Si tratta di una vera e propria rapina alla luce del sole, che vale miliardi di dollari. Abbastanza da comprarci elezioni, governi, giudici, giornali, canali tv, ong e agenzie per gli aiuti. Cosa volete che sia qualche ospedale oncologico qua e là? Non ricordo di aver visto il nome della Vedanta sulla lunga lista di protocolli d’intesa firmati dal governo del Chhattisgarh. Ma sono abbastanza contorta da sospettare che dove c’è un ospedale oncologico dev’esserci anche una montagna di bauxite sventrata, da qualche parte.
Passiamo da Kanker, la città famosa per il suo Counter terrorism and jungle warfare college, diretto dal generale B.K. Ponwar, acceso propagandista di questa guerra, a cui è stato assegnato il compito di trasformare poliziotti corrotti e scioperati (paglia) in commando antiguerriglia (oro). Sui muri di pietra si legge “Combattere la guerriglia come guerriglieri”, il motto della scuola militare. Agli uomini viene insegnato a correre, strisciare, saltare su e giù da elicotteri a mezz’aria, andare a cavallo (non si sa bene perché), mangiare serpenti e sopravvivere con quello che trovano nella giungla. Il generale si vanta di addestrare degli sbandati a combattere i “terroristi”. La scuola sforna ottocento poliziotti diplomati ogni sei settimane. Sono in progetto venti scuole simili in tutta l’India. La polizia si sta gradualmente trasformando in un esercito (nel Kashmir accade il contrario: stanno trasformando l’esercito in un’enorme forza di polizia amministrativa). Sottosopra e alla rovescia. In ogni caso, il nemico è il popolo.
È tardi. A Jagdalpur dormono tutti tranne Rahul Gandhi che dai suoi manifesti chiede d’iscriversi allo Youth congress. È andato nel Bastar due volte negli ultimi mesi ma non ha detto molto sulla guerra. Probabilmente al Principe del Popolo non conviene immischiarsi, a questo punto. I suoi responsabili della comunicazione devono aver puntato i piedi. Il fatto che il Salwa judum – il temuto gruppo paramilitare finanziato dal governo e responsabile di stupri e omicidi, di aver bruciato villaggi e allontanato centinaia di migliaia di persone dalle loro case – sia guidato da Mahendra Karma, un membro del Partito del congresso indiano, non trova molto spazio nella ben orchestrata promozione politica di Rahul Gandhi.
L’appuntamento
Arrivo al tempio di Ma Danteshwari, al primo dei quattro appuntamenti, con un certo anticipo. Ho la macchina fotografica, il mio piccolo cocco e un tika rosso sulla fronte. Mi chiedo se qualcuno mi stia guardando e stia ridendo. Nel giro di pochi minuti mi si avvicina un ragazzo. Porta un berretto e una cartella sulle spalle. Le unghie scheggiate sono laccate di rosso. Niente Outlook in hindi, niente banane. “Sei tu che devi venire nella foresta?”, mi fa. Niente Namashkar Guruji. Io non so che dire. Lui tira fuori dalla tasca un biglietto tutto bagnato e me lo consegna. C’è scritto: “Outlook nahin mila”, non ho trovato Outlook.
“E le banane?”.
“Me le sono mangiate”, dice. “Mi era venuta fame”.
È una vera minaccia per la sicurezza.
Sullo zainetto c’è scritto “Charlie Brown – Non il solito cretino”. Mi dice di chiamarsi Mangtu. Ben presto scoprirò che Dandakaranya, la foresta in cui sto per inoltrarmi, è piena di gente che ha nomi e identità diverse e intercambiabili. Un’idea che per me è come un balsamo. Che bello non essere incatenati a se stessi, poter essere qualcun altro per un po’. Andiamo alla fermata dell’autobus, a pochi minuti dal tempio. È già affollata. Poi succede tutto in fretta. Ci sono due uomini in moto. Non una parola, solo un cenno di riconoscimento, un bilanciamento del peso del corpo, l’avvio dei motori. Non ho idea di dove stiamo andando. Passiamo davanti alla casa del commissario di polizia, che riconosco dalla mia ultima visita. Era un uomo schietto, il commissario. “Vede, signora, detto francamente, non credo che questo problema possa essere risolto dalla polizia o dall’esercito. Il punto è che questi indigeni non sanno cosa sia l’avidità. A meno che non diventino avidi, non abbiamo speranza. Gliel’ho detto al mio capo, richiamiamo le forze armate e mettiamo una tv in tutte le case. Le cose si risolveranno da sole”.
In quattro e quattr’otto siamo fuori città. Nessuno ci segue. Il viaggio è lungo. Tre ore, secondo il mio orologio. E s’interrompe all’improvviso, in mezzo al nulla, su una strada deserta. Mangtu scende dalla moto. Anch’io. Le moto si allontanano, io prendo il mio zaino e seguo nella foresta la piccola minaccia per la sicurezza interna. È una bella giornata. Sotto i nostri piedi, un tappeto dorato.
Dopo un po’, sbuchiamo sulle sponde bianche e sabbiose di un grande fiume piatto. Evidentemente è alimentato dai monsoni, perché in questo periodo è ridotto più o meno a una spianata di sabbia, con al centro un ruscello che arriva fino alle caviglie, facile da guadare. Dall’altra parte c’è il “Pakistan”. “Laggiù, signora”, mi aveva detto con la sua schiettezza il commissario, “i miei uomini sparano per uccidere”. Mi torna in mente quando cominciamo l’attraversamento. Vedo noi due nel mirino dei poliziotti, piccole sagome contro il paesaggio, facili da individuare. Ma Mangtu non sembra affatto preoccupato, e io con lui.
Ad aspettarci sull’altra sponda, con una camicia giallo elettrico, c’è Chandu. Una minaccia per la sicurezza appena più grande. Avrà una ventina d’anni. Ha un bel sorriso, una bicicletta, una tanica d’acqua bollita e molti pacchetti di biscotti al glucosio per me, da parte del Partito. Riprendiamo fiato e ci rimettiamo in cammino. Più tardi verrò a sapere che la bicicletta è solo uno specchietto per le allodole. La strada è quasi interamente non ciclabile. Ci arrampichiamo su per delle colline ripide e scendiamo lungo dei crinali piuttosto precari. Quando non può portarla a mano, Chandu prende la bicicletta e la solleva sopra la testa, come se non pesasse niente. Comincio a chiedermi cosa ci sia dietro a quella sua aria un po’ confusa da ragazzo di campagna. Scoprirò (molto dopo) che è in grado di maneggiare qualsiasi tipo di arma, “tranne una mitragliatrice leggera”, mi dirà allegramente.
Tre uomini belli e completamente ubriachi, con fiori nei turbanti, camminano con noi per circa mezz’ora, prima che le nostre strade si dividano. Al tramonto i sacchi che portano in spalla si mettono a cantare. Dentro ci sono dei galli che non sono riusciti a vendere al mercato. Chandu sembra capace di vedere al buio. Io devo usare la mia torcia elettrica. I grilli cominciano a cantare e presto sopra di noi c’è un’orchestra, una volta sonora. Vorrei tanto guardare il cielo di notte, ma non oso. Devo tenere gli occhi fissi a terra mentre cammino. Un passo alla volta. Concentrarmi.
Sento i cani. Ma non so dire quanto siano lontani. Il terreno si fa pianeggiante. Lancio un’occhiata furtiva al cielo. Resto estasiata. Spero che ci fermeremo presto. “Presto”, dice Chandu. Sarà solo un’ora dopo. Vedo le sagome di alberi enormi. Arriviamo.
Il villaggio sembra spazioso, le case sono distanti tra loro. Quella in cui entriamo è bella. C’è un fuoco, alcune persone sedute in circolo. Altre stanno fuori, al buio. Non saprei dire quante sono. Riesco a malapena a intravederle. Si leva un mormorio. “Lal salaam kaamraid” (“Saluto rosso, compagna”). “Lal salaam”, rispondo io. Dire che sono stanca è poco. La padrona di casa mi chiama dentro e mi dà del pollo al curry con fagioli verdi e riso rosso. Favoloso. La sua bambina dorme accanto a me, con le cavigliere d’argento che brillano alla luce del fuoco.
Ci svegliamo alle cinque. Alle sei ci muoviamo. Un paio d’ore dopo guadiamo un altro fiume. Attraversiamo villaggi bellissimi. Ogni villaggio ha una famiglia di alberi di tamarindo che veglia su di lui, come un gruppo di enormi divinità benevole. È dolce, il tamarindo del Bastar. Alle undici il sole è già alto, e camminare non è divertente. Ci fermiamo in un villaggio per il pranzo. A quanto pare Chandu conosce gli abitanti della casa. Una bella ragazza flirta con lui. Sembra timido, forse perché ci sono io. Il pranzo è a base di papaya cruda con masoor dal e riso rosso. E polvere di peperoncino rosso. Aspetteremo che il sole sia un po’ meno forte prima di rimetterci in cammino. Schiacciamo un sonnellino nel gazebo. Il posto ha una sua scarna bellezza. Tutto è pulito e necessario. Nessun ingombro inutile. Una gallina nera si pavoneggia andando su e giù lungo un muretto di fango. Una griglia di bambù sostiene le travi del tetto di paglia, fungendo anche da ripostiglio. Ci sono una scopa d’erba, due tamburi, un cesto di canne intrecciate, un ombrello rotto e una pila di scatole di cartone ondulato, vuote e schiacciate. Qualcosa cattura la mia attenzione. Ho bisogno degli occhiali. Ecco cosa c’è scritto sul cartone: “Ideal Power 90 High energy emulsion explosive (Class-2) sd cat zz”.
Riprendiamo il cammino verso le due. Al prossimo villaggio troveremo ad aspettarci una didi (sorella, compagna) che sa quale sarà la tappa successiva del viaggio. Chandu non la conosce. Esiste anche un’economia delle informazioni. Nessuno deve sapere tutto. Ma quando arriviamo al villaggio, la didi non c’è. Di lei non si sa nulla. Per la prima volta, vedo una piccola ombra di preoccupazione sul volto di Chandu. Sul mio, se ne posa una grande. Non so quali siano i sistemi di comunicazione, ma se non avessero funzionato?
Siamo davanti a una scuola deserta, un po’ fuori dal villaggio. Perché tutte le scuole statali nei villaggi sono costruite come fortezze di cemento, con persiane d’acciaio alle finestre e porte blindate? Perché non sono di fango e paglia come le case locali? Perché servono da caserme e bunker.
“Nei villaggi dell’Abujhmad”, dice Chandu, “le scuole sono così”: con un bastoncino traccia per terra la pianta di una scuola. Tre ottagoni attaccati fra loro, come un alveare. “Così possono sparare in tutte le direzioni”. Disegna alcune frecce per illustrare il concetto: sembra un grafico del cricket che visualizza le traiettorie dei tiri del battitore. Nelle scuole non ci sono maestri, dice Chandu. Sono scappati tutti. O li avete fatti scappare voi? No, noi diamo la caccia solo ai poliziotti. Ma perché i maestri dovrebbero venire fin qui, nella giungla, quando prendono lo stipendio anche a casa loro? Giusto. M’informa che questa è una “zona nuova”. Il Partito ci è entrato solo di recente.
Arriva una ventina di ragazzi e ragazze. Sono adolescenti o poco più che ventenni. Chandu spiega che sono la milizia di villaggio, il rango più basso della gerarchia militare dei maoisti. Non avevo mai visto persone del genere. Sono vestiti con sari e lungi, alcuni con logore tute verde oliva. I ragazzi indossano gioielli e copricapo elaborati. Ognuno di loro ha un fucile a carica frontale, che qui si chiama bharmaar. Alcuni hanno anche coltelli, asce, arco e frecce. Un ragazzo porta un mortaio di fortuna, ricavato da un pesante tubo d’acciaio lungo un metro. Il tubo è pieno di polvere da sparo e proiettili shrapnel. Fa un gran rumore, ma si può usare una volta sola. Però spaventa la polizia, mi spiegano. E ridono. La guerra non sembra in cima ai loro pensieri. Forse perché questa zona è fuori dal raggio d’azione del Salwa judum. Hanno appena finito la loro giornata di lavoro.
Stanno aiutando a costruire una recinzione intorno ad alcune case del villaggio: servirà a tenere le capre lontane dai campi. Sono pieni di allegria e di curiosità. Le ragazze sono sicure di sé e disinvolte con i ragazzi. Ho un sesto senso per queste cose, e rimango colpita. Il loro lavoro consiste nel pattugliare e proteggere un gruppo di quattro o cinque villaggi: aiutano nei campi, puliscono pozzi o riparano case. Fanno tutto quello che serve.
Ma la didi non si vede ancora. Che fare? Niente. Aspettiamo. Aiutiamo ad affettare e a sbucciare.
Dopo cena, senza tanti discorsi, tutti si mettono in fila. Evidentemente ci spostiamo. Tutto si sposta con noi: riso, verdure, pentole e padelle. Lasciamo il complesso della scuola e c’inoltriamo nella foresta, in fila uno dietro l’altro. In meno di mezz’ora arriviamo in una radura dove passeremo la notte. Non c’è il minimo rumore. Nel giro di pochi minuti tutti hanno steso a terra i loro teli di plastica azzurri, gli onnipresenti jhilli (senza i quali non può esserci rivoluzione). Chandu e Mangtu ne dividono uno, e un altro lo stendono per me. Mi trovano il posto migliore, vicino alla roccia grigia migliore. Chandu dice che ha spedito un messaggio alla didi. Se lo riceve, arriverà domattina presto. Se lo riceve.
È la stanza più bella in cui dormo da tanto tempo. La mia suite privata in un albergo a cinque stelle. Sono circondata da questi strani, bellissimi bambini con il loro strano arsenale. Sono tutti maoisti, questo è certo. Moriranno tutti? Contro di loro, la scuola militare di addestramento alla guerriglia? Contro di loro, gli elicotteri d’assalto, le immagini termiche e i telemetri laser? Perché devono morire? Per cosa? Per trasformare tutto questo in una miniera? Ricordo la mia visita alle miniere a cielo aperto di minerale ferroso a Keonjhar, nell’Orissa. Lì, una volta, c’era una foresta. E bambini come questi. Ora la terra è come una ferita rossa e aperta. Polvere rossa riempie narici e polmoni. L’acqua è rossa, l’aria è rossa, le persone sono rosse, i loro polmoni e i loro capelli sono rossi.
Giorno e notte i camion attraversano rombando i loro villaggi, paraurti contro paraurti, migliaia di camion che trasportano minerali grezzi al porto di Paradip, da cui partono per la Cina. Lì si trasformeranno in automobili e fumo e città che spuntano come funghi da un giorno all’altro. Si trasformeranno in un “tasso di crescita” che lascia gli economisti senza fiato, in armi per fare la guerra.
Tutti dormono, tranne le sentinelle che fanno turni di un’ora e mezzo. Finalmente, posso guardare le stelle. Da piccola, quando vivevo sulle rive del fiume Meenachal, pensavo che il verso dei grilli – che cominciava sempre al crepuscolo – fosse il rumore delle stelle quando si accendono, pronte a risplendere. Sono sorpresa di quanto mi piace stare qui. Non vorrei trovarmi in nessun altro posto al mondo. Chi potrei essere? La compagna Rahel sotto le stelle? Forse domani la didi arriverà.
Arrivano nel primo pomeriggio. Li vedo da lontano. Sono una quindicina, tutti in divisa verde, vengono di corsa verso di noi. Anche da lontano capisco da come corrono che sono il vero esercito. Il People’s liberation guerrilla army (Plga). Contro di loro, le immagini termiche e i fucili con puntatori laser. Contro di loro, la scuola di addestramento alla guerriglia. Portano fucili seri, Insas, Slr, due hanno un Ak-47. Il capo della squadra è il compagno Madhav, che è nel Partito da quando aveva nove anni. Viene da Warangal, nell’Andhra Pradesh. È agitato e dispiaciuto, si scusa. C’è stato un grosso problema di comunicazione, continua a ripetere, di solito non capita mai. Io sarei dovuta arrivare al campo principale la prima notte. Ma qualcuno ha lasciato cadere il testimone della staffetta, nella giungla. La motocicletta doveva lasciarmi in tutt’altro posto. “Ti abbiamo fatto aspettare, ti abbiamo fatto camminare tanto. Siamo corsi subito quando è arrivato il messaggio che eri qui”. Dico che non importa, che sono venuta preparata ad aspettare, camminare e ascoltare. Lui vuole ripartire immediatamente, perché la gente al campo ci aspetta, è preoccupata.
Armi e sorrisi
Sono poche ore di cammino fino al campo. Quando arriviamo è quasi buio. Ci sono diverse file di sentinelle e di pattuglie disposte in cerchi concentrici. Vedo centinaia di compagni allineati su due file. Tutti hanno un’arma. E un sorriso. Si mettono a cantare: Lal lal salaam, lal lal salaam, aane vaale saathiyon ko lal lal salaam (saluto rosso ai compagni che sono arrivati). Cantano dolcemente, sembra un brano tradizionale che parla di un fiume o dei fiori di una foresta. Con la canzone, anche il saluto, la stretta di mano e il pugno chiuso. Tutti salutano tutti, mormorando Lalslaam, mlalslaa mlalslaam…
A parte un grande jhilli blu steso per terra largo circa quattro metri e mezzo non c’è traccia di un accampamento. La mia stanza per la notte ha un jhilli anche per tetto. O mi stanno ricompensando per i giorni di cammino che ho già fatto, o mi stanno viziando per quelli che mi aspettano. O entrambe le cose. In ogni caso è l’ultima volta che avrò un tetto sopra la testa. A cena conosco la compagna Narmada, che guida il Krantikari adivasi mahila sangathan (Kams) e ha una taglia sulla testa; la compagna Saroja del Plga, che è alta appena quanto il suo fucile Slr; la compagna Maase (che in gondi significa “ragazza nera”), anche lei con una taglia sulla testa; il compagno Rupi, il mago delle tecnologie; il compagno Raju, comandante della divisione con cui ho attraversato la giungla a piedi; e il compagno Venu (o Murali o Sonu o Sushil, comunque vogliate chiamarlo), chiaramente il più alto in grado. Forse è il comitato centrale, forse è addirittura il politburo. Non me lo dicono, io non lo chiedo. Tra di noi parliamo gondi, halbi, telugu, punjabi e malayalam. Solo Maase parla inglese (quindi comunichiamo in hindi!).
La compagna Maase è alta e taciturna, e per entrare nella conversazione sembra dover attraversare uno strato di dolore. Ma da come mi abbraccia capisco che è una lettrice. E che le mancano i libri, nella giungla. Mi racconterà la sua storia solo dopo. Quando mi affiderà il suo dolore. Arrivano brutte notizie, nel modo in cui arrivano qui nella giungla. Tramite un fattorino con i “biscotti”: biglietti scritti a mano su fogli di carta, piegati e spillati in piccoli quadrati. Ce n’è un sacchetto pieno. Come patatine. Notizie che arrivano un po’ da ovunque. La polizia ha ucciso cinque persone nel villaggio di Ongnaar, quattro miliziani e un civile: Santhu Pottai (25 anni), Phoolo Vadde (22 anni), Kande Pottai (22 anni), Ramoli Vadde (20 anni), Dalsai Koram (22 anni). Avrebbero potuto essere i ragazzini del mio dormitorio stellato, la sera prima.
Poi arrivano buone notizie. Un piccolo contingente di persone, tra cui un giovane grassoccio. Anche lui indossa una tuta, che però sembra nuova di zecca. Tutti la ammirano, e si complimentano per come gli sta. Lui sembra imbarazzato e compiaciuto. È un medico che è venuto a vivere e a lavorare con i compagni nella foresta. L’ultima volta che si è visto un medico nel Dandakaranya è stato molti anni fa. Alla radio, si parla dell’incontro del ministro degli interni con i governatori degli stati “interessati dall’estremismo di sinistra”. I governatori dello Jharkhand e del Bihar sono molto schivi e non hanno partecipato. Tutti quelli seduti intorno alla radio ridono. In tempo di elezioni, spiegano, per tutta la durata della campagna elettorale e forse anche un paio di mesi dopo la formazione del governo, i leader politici dei partiti tradizionali dicono cose come “i naxaliti sono nostri figli”. Ma potete stare tranquilli che prima o poi cambieranno idea e tireranno fuori gli artigli.
Mi presentano la compagna Kamla. Mi dicono che non devo per nessun motivo allontanarmi neppure di un metro dal mio jhilli senza svegliarla. Perché è facile perdere l’orientamento al buio, e smarrirsi. (Io non la sveglio. Dormo come un ghiro). La mattina, Kamla mi consegna un sacchetto giallo di polietilene con un angolo tagliato. Una volta conteneva olio di soia Abis Gold. Ora è la mia tazza. Non si butta via niente sulla Strada per la Rivoluzione. Anche oggi penso sempre alla compagna Kamla, tutti i giorni. Ha 17 anni. Porta una pistola fatta in casa legata su un fianco. E che sorriso, ragazzi. Ma se i poliziotti la trovano, l’ammazzano. Potrebbero violentarla, prima. Non le faranno domande. Perché è una Minaccia per la sicurezza interna.
Dopo la colazione, il compagno Venu (Sushil, Sonu, Murali) mi aspetta, seduto a gambe incrociate sul jhilli. Sembra in tutto e per tutto un fragile maestro di campagna. Mi farà una lezione di storia. O, più esattamente, una lezione sulla storia degli ultimi trent’anni nella foresta di Dandakaranya, culminata nella guerra che imperversa oggi. Certamente è una versione partigiana. D’altra parte, quale storia non lo è? In ogni caso, la storia segreta dev’essere resa pubblica per poter essere contestata e discussa, anziché solo oggetto di menzogne, come avviene oggi.
Il compagno Venu ha modi pacati e rassicuranti e una voce gentile che, giorni dopo, riaffiorerà in un contesto molto difficile per me. Stamattina parla per molte ore, quasi ininterrottamente. È come un piccolo direttore di negozio con un enorme mazzo di chiavi in mano, con cui apre un labirinto di armadietti pieni di storie, canzoni e osservazioni. Il compagno Venu era in una delle sette squadre armate che hanno attraversato il fiume Godavari dall’Andhra Pradesh e sono entrate nella foresta di Dandakaranya (il Dk, nel gergo dei guerriglieri) nel giugno del 1980, trent’anni fa. È uno dei 49 ribelli originari. Facevano parte del People’s war group (Pwg), una fazione del Partito comunista indiano marxista-leninista o Cpi(ml), i primi naxaliti. Il Pwg si era costituito ufficialmente come partito separato e indipendente nell’aprile di quell’anno, sotto la guida di Kondapalli Seetharamiah. Aveva deciso di istituire un esercito permanente e gli serviva una base.
Quella base doveva essere la foresta di Dandakaranya. Per questo aveva inviato sette squadre a fare una prima ricognizione dell’area e avviare la creazione di zone di guerriglia. Se i partiti comunisti dovessero avere un esercito permanente, e se un “esercito del popolo” fosse una contraddizione in termini o no, era una questione già dibattuta da tempo. La decisione del Pwg di dotarsi di un esercito permanente era nata dall’esperienza nell’Andhra Pradesh, dove la sua campagna “La terra ai contadini” aveva portato a uno scontro diretto con i proprietari terrieri, e a una conseguente repressione poliziesca che il Partito non avrebbe potuto fronteggiare senza una sua forza combattente addestrata. Nel 2004 il Pwg si è fuso con le altre due fazioni del Cpi(ml) – il Party unity (Pu) e il Maoist communist centre (Mcc), attivo soprattutto fuori dal Bihar e dallo Jharkhand – diventando quello che è ora, il Communist party of India-Maoist.
La terra dei gond
Il Dandakaranya fa parte di quello che gli inglesi chiamavano, nel linguaggio dei bianchi, Gondwana, la terra dei gond. Oggi la foresta è attraversata dai confini degli stati di Madhya Pradesh, Chhattisgarh, Orissa, Andhra Pradesh e Maharashtra. Dividere una popolazione turbolenta in unità amministrative separate è un vecchio trucco. Ma questi maoisti e gond maoisti non prestano grande attenzione a cose come i confini statali. Hanno mappe diverse in testa e, come altre creature della foresta, hanno i loro sentieri. Per loro, le strade non sono fatte per camminarci. Sono fatte solo per essere attraversate o, come avviene sempre più spesso, per tendere imboscate. Anche se i gond (divisi in tribù koya e dorla) sono di gran lunga la maggioranza, ci sono anche piccoli insediamenti di altre comunità tribali. Le comunità non adivasi, commercianti e coloni, vivono ai margini della foresta, vicino alle strade e ai mercati.
I membri del Pwg non sono stati i primi evangelizzatori ad arrivare a Dandakaranya. Il noto gandhiano Baba Amte aveva fondato il suo ashram e lebbrosario a Warora nel 1975. La Ramakrishna mission aveva aperto scuole nei villaggi più remoti delle foreste di Abujhmad. Nel Bastar del nord, Baba Bihari Das aveva lanciato un’offensiva per “riportare gli indigeni all’ovile induista”, con una campagna che denigrava le culture tribali e le induceva all’odio di sé, offrendo in cambio il grande dono dell’induismo: la casta. Ai primi convertiti, i capi-villaggio e i grandi proprietari terrieri – gente come Mahendra Karma, il fondatore del Salwa judum – veniva conferito lo status di brahmini dwij, nati due volte. (Era un po’ una truffa, visto che brahmini non si diventa. Altrimenti, oggi saremmo un paese di brahmini).
Ma questa versione contraffatta dell’induismo è considerata buona per le comunità tribali quanto tutti gli altri prodotti contraffatti – biscotti, sapone, fiammiferi, olio – che si vendono nei mercati dei villaggi. Sull’onda dell’induizzazione sono stati cambiati i nomi dei villaggi sui registri fondiari, col risultato che ora molti hanno due nomi, il nome comune e quello ufficiale. Il villaggio di Innar, per esempio, è diventato Chinnari. Sulle liste elettorali, i nomi tribali sono stati trasformati in nomi indù (Massa Karma è diventato Mahendra Karma). Quelli che non hanno voluto tornare all’ovile indù sono stati dichiarati “katwa” (praticamente intoccabili), e poi sono diventati l’elettorato naturale dei maoisl’elettorato naturale dei maoisti.
Il Pwg ha cominciato la sua attività politica nel sud del Bastar e nel distretto di Gadchiroli. Il compagno Venu racconta in modo abbastanza particolareggiato quei primi mesi. Gli abitanti dei villaggi erano diffidenti, non li facevano entrare nelle loro case. Nessuno gli offriva da bere o da mangiare. La polizia aveva fatto circolare la voce che fossero ladri. Le donne nascondevano i gioielli nella cenere delle stufe. La repressione era molto dura. Nel novembre del 1980, nel Gadchiroli, la polizia aprì il fuoco durante un’assemblea di villaggio, uccidendo un’intera squadra. Furono le prime vittime dei cosiddetti encounter killings, “incontri”, esecuzioni sommarie cammuffate da conflitti a fuoco.
Dopo questa traumatica battuta d’arresto, i compagni si ritirarono al di là delle sponde del Godavari, ad Adilabad. Ma nel 1981 tornarono. Cominciarono a far organizzare gli indigeni, per chiedere di poter vendere a un prezzo più alto le foglie di tendu. All’epoca i commercianti pagavano tre paise (centesimi di rupia) per un fascio di circa cinquanta foglie. Fu un lavoro enorme organizzare persone completamente estranee a questo tipo di azioni politiche, e guidarle in uno sciopero. Alla fine lo sciopero ebbe successo e il prezzo venne portato a sei paise a fascio, il doppio. Ma il vero successo per il Partito fu quello di riuscire a dimostrare il valore dell’unione, e di un nuovo modo di condurre una trattativa politica.
Oggi, dopo molti scioperi e agitazioni, il prezzo di un fascio di foglie di tendu è di una rupia. (Per quanto possa sembrare improbabile, alla luce di queste cifre, il fatturato del commercio del tendu è di miliardi di rupie). Ogni stagione, il governo lancia gare d’appalto e consente agli imprenditori di estrarre un certo volume di foglie di tendu, di solito tra i 1.500 e i cinquemila sacchi standard, noti come manak bora. Ogni manak bora contiene circa mille fasci di foglie e, naturalmente, non c’è modo di assicurarsi che gli appaltatori non ne estraggano più del dovuto. Quando il tendu arriva sul mercato viene venduto a chili.
Con la sua aritmetica scivolosa, l’astuto sistema di misurazione che converte fasci di foglie in sacchi e poi in chili è controllato dagli appaltatori e si presta a ogni tipo di manipolazione. La stima più prudente ipotizza un profitto intorno alle 1.100 rupie a sacco (questo dopo aver pagato al Partito una commissione di 120 rupie a sacco). Anche così, un piccolo appaltatore (1.500 sacchi) guadagna circa un milione e 600mila rupie a stagione, e un grosso appaltatore (cinquemila sacchi) fino a cinque milioni e mezzo di rupie. Una stima più realistica potrebbero essere le stesse cifre moltiplicate per diverse volte. Intanto, la Più Grave Minaccia per la Sicurezza Interna guadagna appena quanto basta a sopravvivere fino alla stagione successiva.
Veniamo interrotti da alcune risate e dalla vista di Nilesh, uno dei giovani compagni del Plga, che corre verso la cucina dandosi degli schiaffi. Quando mi passa vicino, vedo che ha in mano una foglia arrotolata piena di formiche rosse inferocite che gli si arrampicano dappertutto e lo mordono sulle braccia e sul collo. Anche Nilesh ride. “Hai mai mangiato chutney di formiche?”, mi chiede il compagno Venu. Conosco bene le formiche rosse, sono cresciuta nel Kerala. Conosco il loro morso ma non le ho mai mangiate (lo chapoli si rivela gustoso, però. Amaro. Tanto acido folico).
Nilesh è di Bijapur, dove imperversa il Salwa judum. Suo fratello minore si è unito alle milizie del Judum durante una delle loro scorrerie, ed è stato nominato Special police officer (Spo). Vive al campo di Basaguda con la madre. Suo padre si è rifiutato di seguirli ed è rimasto al villaggio. In effetti, la loro è una vera e propria faida familiare. In seguito, quando abbiamo avuto modo di parlare, ho chiesto a Nilesh perché suo fratello l’avesse fatto. “Era molto giovane”, ha risposto. “Gli è stata data la possibilità di sfogare tutta la sua rabbia facendo del male alla gente e bruciando case. È impazzito, ha fatto cose terribili. Ora è incastrato. Non potrà mai più tornare al villaggio. Non sarà mai perdonato. E lui lo sa”.Riprendiamo la lezione di storia. La seconda grande battaglia del Partito, racconta il compagno Venu, è stata quella contro le cartiere delle Ballarpur industries. Il governo aveva rilasciato ai Thapar una concessione di quarantacinque anni per la raccolta di 150mila tonnellate di bambù, a un prezzo enormemente vantaggioso (anche se, rispetto alla bauxite, non è niente). Gli indigeni venivano pagati dieci paise per un fascio di venti steli di bambù. (Non cederò alla volgare tentazione di fare paragoni con i profitti dei Thapar). Una lunga agitazione e uno sciopero, seguiti da trattative pubbliche con i dirigenti delle cartiere, triplicarono il prezzo portandolo a trenta paise. Per gli indigeni si trattò di conquiste enormi. Altri partiti avevano fatto promesse, senza mai mantenerle. La gente cominciò ad avvicinarsi al Pwg e a chiedere di farne parte.
Ma la politica del tendu, del bambù e degli altri prodotti della foresta era stagionale. Il problema perenne, il vero flagello degli indigeni, era il più grande proprietario terriero in assoluto, il dipartimento forestale. Tutte le mattine i funzionari del dipartimento, a volte perfino gli ultimi degli impiegati, si presentavano implacabili nei villaggi per impedire ai loro abitanti di arare i campi, di raccogliere legna da ardere, foglie e frutti, di pascolare il bestiame: di vivere, insomma. Portavano elefanti per spianare i campi e spargevano semi di babul per distruggere il suolo al loro passaggio. La gente veniva picchiata, arrestata, umiliata, i raccolti distrutti. Naturalmente, per il governo erano persone illegalmente impegnate in attività anticostituzionali, e gli uomini del dipartimento non facevano altro che applicare la legge (lo sfruttamento sessuale delle donne era solo una gratifica in più per una destinazione disagiata).
Incoraggiato dalla partecipazione delle persone a queste battaglie, il Partito decise di battersi contro il dipartimento forestale, incoraggiando gli indigeni a riprendersi la foresta e a coltivarla. Per rappresaglia, il dipartimento bruciò i villaggi che nascevano via via. Quando il Partito arrivò in quelle zone, i lavori di costruzione delle infrastrutture erano già cominciati e più della metà dei villaggi era stata evacuata. I guerriglieri smantellarono i cantieri e fermarono lo sfratto dai villaggi rimasti. Impedirono l’ingresso ai forestali. In certi casi, alcuni di loro furono catturati, legati agli alberi e picchiati. Fu una vendetta catartica per lo sfruttamento di generazioni di indigeni. Alla fine i rappresentanti del dipartimento scapparono. Tra il 1986 e il 2000 il Partito ha ridistribuito 120mila ettari di terre forestali. Oggi, dice il compagno Venu, non ci sono contadini senza terra nel Dandakaranya. Per le giovani generazioni, il dipartimento forestale è solo un ricordo lontano, che rivive nelle storie che le madri raccontano ai figli. Storie che narrano un passato di schiavitù e umiliazioni ormai leggendario. Per le vecchie generazioni, la liberazione dal dipartimento forestale ha significato vera libertà. Potevano toccarla, assaporarla. Ha significato molto più di quanto abbia mai significato l’indipendenza dell’India. Hanno cominciato a raccogliersi intorno al Partito che aveva combattuto al loro fianco.
Quelle prime sette squadre ne hanno fatta di strada. Oggi il Partito controlla sessantamila chilometri quadrati di foresta, migliaia di villaggi e milioni di persone. Ma la partenza del dipartimento forestale annunciava l’arrivo della polizia, che ha innescato una spirale di sangue. Da una parte i falsi “incontri” dei poliziotti, dall’altra le imboscate del Pwg. Con la ridistribuzione delle terre sono arrivate altre responsabilità: l’irrigazione, la produzione agricola e il problema di un numero sempre maggiore di abitanti locali che si appropriavano di terreni forestali. Il Partito ha deciso di separare il “lavoro delle masse” e il “lavoro militare”.
Oggi il Dandakaranya è amministrato da una complessa struttura di Janatana sarkar (governi del popolo). I princìpi organizzativi sono mutuati dalla rivoluzione cinese e dalla guerra del Vietnam. Ogni Janatana sarkar è eletto da un gruppo di villaggi la cui popolazione totale varia dai cinquecento ai cinquemila abitanti. Ha nove dipartimenti: Krishni (agricoltura), Vyapar-Udyog (commercio e industria), Arthik (economia), Nyay (giustizia), Raksha (difesa), Hospital (salute), Jan sampark (relazioni pubbliche), School-riti rivaj (istruzione e cultura) e Jungle. Ogni gruppo di Janatana sarkar è riunito in un comitato di zona. Tre comitati di zona formano una divisione. Ci sono dieci divisioni nel Dandakaranya.
“Abbiamo un dipartimento Save the jungle, ora”, dice il compagno Venu. “Avrai letto il rapporto governativo che dice che nelle zone naxalite la foresta è cresciuta”. Paradossalmente, continua Venu, i primi a trarre vantaggio dalla campagna del Partito contro il dipartimento forestale sono stati i mukhia (capi villaggio), la brigata Dwij. Hanno usato la loro forza lavoro e le loro risorse per accaparrarsi quanta più terra hanno potuto, finché è stato possibile. Ma poi la gente ha cominciato a mettere il Partito di fronte alle sue “contraddizioni interne”, come le definisce in modo pittoresco il compagno Venu. Il Partito ha cominciato a occuparsi dei problemi di giustizia e di classe all’interno della società tribale. I latifondisti intravedevano guai all’orizzonte. Mentre l’influenza del Partito cresceva, la loro diminuiva. Sempre più spesso, i contadini si rivolgevano al Partito per i loro problemi, e non ai mukhia. Cominciavano a mettere in discussione alcune forme di sfruttamento. Tradizionalmente, il primo giorno della stagione delle piogge i contadini lavoravano la terra del mukhia anziché la propria. Non è più stato così: nessuno era più disposto a regalare al mukhia il suo primo giorno di raccolto o i prodotti della foresta. Ovviamente, bisognava correre ai ripari.
Ed è qui che entra in scena Mahendra Karma, uno dei più grandi latifondisti della regione, e allora membro del Partito comunista dell’India (Cpi). Nel 1990, insieme a un gruppo di mukhia e proprietari terrieri, lanciò la campagna Jan jagran abhiyaan (campagna del pubblico risveglio). Per “risvegliare il pubblico” pensò di organizzare una squadra di circa trecento uomini col compito di rastrellare la foresta, uccidere, bruciare le case e violentare le donne. L’allora governo del Madhya Pradesh – il Chhattisgarh non esisteva ancora – si impegnò a fornire il sostegno della polizia. Nel Maharashtra nacque un’organizzazione simile, il Fronte democratico, che cominciò a sferrare il suo attacco. Il Partito della guerra di popolo reagì in perfetto stile maoista, uccidendo alcuni dei più famigerati latifondisti. Nel giro di pochi mesi, il Jan jagran abhiyaan – il “terrore bianco”, come lo definisce il compagno Venu – scomparve. Nel 1998 Mahendra Karma, che nel frattempo era entrato nel Partito del congresso, provò a rilanciare la campagna del Jan jagran abhiyaan. Ma questa volta svaporò ancora più rapidamente.
Gli affari prima di tutto
Poi, nell’estate del 2005, Mahendra Karma ebbe un colpo di fortuna. In aprile, il governo del Chhattisgarh guidato dal Bharatiya janata party (Bjp) aveva firmato due protocolli d’intesa (i cui termini restano segreti) per la costruzione di acciaierie integrate. Uno di settanta miliardi di rupie con la Esser steel a Baladila, l’altro di cento miliardi di rupie con Tata steel a Lohandiguda. Quello stesso mese, il primo ministro Manmohan Singh aveva rilasciato la famosa dichiarazione in cui definiva i maoisti “la più grave minaccia per la sicurezza interna indiana”: un’affermazione piuttosto curiosa, visto che all’epoca era vero il contrario. Il Partito del congresso al governo nell’Andhra Pradesh aveva appena sconfitto strategicamente i maoisti, decimandoli. Il Partito aveva perso circa 1.600 dei suoi quadri e si trovava nel caos più completo. La dichiarazione del primo ministro fece impennare il valore azionario delle compagnie minerarie. E mandò un segnale ai mezzi d’informazione: chiunque volesse dare la caccia ai maoisti era autorizzato a farlo. Nel giugno del 2005, Mahendra Karma convocò una riunione segreta di mukhia nel villaggio di Kutroo, e istituì il Salwa judum (caccia purificatrice). Una bella miscela di concretezza tribale e razzismo nazi-Dwij.
A differenza del Jan jagran abhiyaan, il Salwa judum era un’operazione di sgombero dei territori e trasferimento forzato dei tribali dai loro villaggi in campi lungo le strade, dove la polizia poteva tenerli sotto controllo. In termini militari si chiama strategic hamleting, raggruppamento strategico della popolazione. Fu il generale Harold Briggs a inventarlo, nel 1950, quando gli inglesi combattevano contro i comunisti in Malesia. Il piano Briggs è diventato molto popolare nell’esercito indiano, che lo ha usato in Nagaland, Mizoram e Telangana. Il primo ministro del Chhattisgarh, Raman Singh, leader del Bjp, annunciò che chiunque avesse rifiutato il trasferimento nei campi sarebbe stato considerato un maoista. Così, nel Bastar, restarsene a casa equivaleva a “indulgere in pericolose attività terroristiche”.
Oltre a una tazza metallica di tè nero, un omaggio speciale, qualcuno mi porge un paio di cuffie e accende un lettore mp3. È una registrazione disturbata del signor Manhar, allora commissario di polizia a Bijapur, che istruisce via radio uno dei suoi agenti su premi e incentivi che lo stato e i governi centrali offrono ai villaggi jagrit (risvegliati) e ai tribali che accettano di trasferirsi nei campi. Dopodiché dà chiare istruzioni di bruciare i villaggi che non si arrendono, e di sparare a vista ai giornalisti che vogliono scrivere dei naxaliti (questo l’avevo letto sui giornali tanto tempo fa. Quando la storia è venuta fuori, per punizione – non saprei dire di chi – il commissario è stato trasferito alla commissione di stato sui diritti umani).
Il primo villaggio bruciato dal Salwa judum (il 18 giugno 2005) è stato Ambeli. Tra giugno e dicembre del 2005 la milizia ha bruciato, ucciso, stuprato e saccheggiato in centinaia di villaggi nel Dantewada meridionale. I suoi centri operativi si trovavano nei distretti di Bijapur e Bhairamgarh, vicino a Bailadila, dov’era stato progettato lo stabilimento della Essar steel. Per l’appunto, quei distretti erano anche roccaforti maoiste, dove i Janatana sarkar avevano fatto un gran lavoro, soprattutto costruendo strutture per la raccolta delle acque. E i Janatana sarkar sono diventati il principale bersaglio degli attacchi del Salwa judum. Centinaia di persone sono state uccise nei modi più atroci. Circa sessantamila persone si sono trasferite nei campi, alcune volontariamente, altre per paura. Di queste, circa tremila sono state nominate Spo, con uno stipendio di 1.500 rupie.
Per queste misere briciole, i ragazzi come il fratello di Nilesh si sono autocondannati all’ergastolo dentro una recinzione di filo spinato. Per quanto crudeli siano stati, potrebbero essere proprio loro le prime vittime di questa guerra orrenda. Nessun decreto della Corte suprema che ordini lo smantellamento del Salwa judum potrà cambiare il loro destino.
Centinaia di migliaia di tribali, nel frattempo, sono scomparsi dal radar del governo. (Ma non i fondi per lo sviluppo dei loro 644 villaggi. Che fine farà quella piccola miniera d’oro?). Molti sono riusciti ad arrivare in Andhra Pradesh e Orissa, dove di solito emigravano come manodopera durante la stagione della raccolta dei peperoni. Ma in decine di migliaia sono fuggiti nella foresta, dove vivono ancora, senza un riparo, tornando ai loro campi e alle loro case solo di giorno.
Nella scia del Salwa judum è spuntata una schiera di stazioni di polizia e campi militari. L’idea era quella di creare una rete capillare di sorveglianza per impedire la “rioccupazione strisciante” del territorio controllato dai maoisti. Si dava per scontato che i maoisti non avrebbero osato attaccare una simile concentrazione di forze di sicurezza. I maoisti, dal canto loro, sapevano che non farlo equivaleva ad abbandonare la gente di cui avevano conquistato la fiducia e con cui avevano vissuto e lavorato per venticinque anni. Così hanno reagito con una serie di attacchi al cuore della rete di sorveglianza.
Il 26 gennaio del 2006 il People’s liberation guerrilla army (Plga) ha attaccato un campo della polizia a Gangalaur uccidendo sette persone. Il 17 luglio 2006, nell’assalto al campo del Salwa judum a Erabor, ne hanno uccise venti e ferite centocinquanta (forse ne avrete letto: “I maoisti hanno attaccato il centro di accoglienza aperto dal governo statale per offrire riparo ai contadini in fuga dai loro villaggi a causa del terrore seminato dai naxaliti”). Il 13 dicembre 2006 hanno attaccato il campo di “accoglienza” di Basaguda e ucciso tre Spo e un agente di polizia.
Il 15 marzo 2007 l’assalto più audace. Centoventi guerriglieri del Plga hanno attaccato il Rani Bodili Kanya ashram, un ostello femminile trasformato in caserma dove vivevano ottanta uomini della polizia (e Spo) del Chhattisgarh, che usavano come scudi umani le ragazze che continuavano a viverci. Il Plga è entrato nel complesso, ha isolato l’ala dell’edificio che ospitava le ragazze e preso d’assalto la caserma, uccidendo 55 uomini, tra poliziotti e Spo. Nessuna delle ragazze è rimasta ferita (lo schietto commissario del Dandakaranya mi aveva mostrato la sua presentazione in PowerPoint con le foto raccapriccianti dei corpi bruciati e sventrati dei poliziotti tra le macerie dell’edificio scolastico esploso. Erano talmente macabri che era impossibile non distogliere lo sguardo. E lui sembrava compiaciuto della mia reazione).
L’attacco al Rani Bodili ha scatenato il finimondo nel paese. Le organizzazioni per i diritti umani hanno condannato i maoisti non solo per la loro violenza, ma perché attaccavano le scuole. Nel Dandakaranya, però, il Rani Bodili è diventato una leggenda: ne parlano canzoni, poesie e lavori teatrali. La controffensiva maoista è riuscita a rompere la rete di sorveglianza e a restituire spazio vitale alle persone. La polizia e il Salwa judum si sono ritirati nei loro campi, da cui oggi emergono – di solito nel cuore della notte – solo in branchi di centinaia di uomini, per condurre operazioni di “cordonamento e controllo” dei villaggi.
Un po’ alla volta, gli sfollati nei campi allestiti dal Salwa judum, tranne gli Spo e le loro famiglie, hanno cominciato a tornare nei loro villaggi. I maoisti li hanno riaccolti, e hanno annunciato che anche gli Spo potrebbero tornare se si pentissero sinceramente e pubblicamente delle loro azioni. I giovani cominciano a confluire nel Plga (il Plga si è costituito ufficialmente nel dicembre del 2000. Nel corso degli ultimi trent’anni le sue squadre combattenti sono cresciute fino a trasformarsi in sezioni, le sezioni in plotoni, e i plotoni in compagnie. Ma dopo i saccheggi del Salwa judum è cresciuto rapidamente, e oggi vanta numeri da battaglione).
Il Salwa judum non soltanto aveva fallito, ma si era rivelato un boomerang. Come oggi sappiamo, non erano solo bande di teppisti locali. Nonostante le notizie confuse date dalla stampa, il Salwa judum è stata un’operazione congiunta del governo del Chhattisgarh e del Partito del congresso, al potere nell’India centrale. Un’operazione che non poteva fallire. Non con tutti quei protocolli d’intesa rimasti lì ad aspettare, come zitelle che invecchiano sognando il principe azzurro. Il governo doveva assolutamente escogitare un nuovo piano. Ed è nata l’operazione Green hunt. Ora gli Spo del Salwa judum si chiamano Commando Koya. Il governo ha schierato il Chhattisgarh armed force (Caf), la Central reserve police force (Crpf), la Border security force (Bsf), l’Indo-tibetan border police (Itbp), la Central industrial security force (Cisf), le squadre di Levrieri, Scorpioni e Cobra. E una politica affettuosamente chiamata Wham: conquistare i cuori e le menti.
Accade spesso che guerre importanti si combattano in luoghi improbabili. Il capitalismo del libero mercato ha sconfitto il comunismo sovietico sulle aride montagne dell’Afghanistan. Qui, nelle foreste del Dantewada, infuria una battaglia per l’anima dell’India. Si è detto molto della crisi sempre più profonda della democrazia indiana, e della collusione tra multinazionali, grandi partiti politici e apparati della sicurezza. Chi volesse fare una rapida verifica sul campo, è nel Dantewada che dovrebbe andare.
Dal rapporto preliminare Relazioni agricole statali e la sfida incompiuta della riforma agraria, Vol.1, è emerso che i principali finanziatori del Salwa judum sono state le due compagnie Tata steel ed Essar steel. Siccome è un rapporto del governo, quando ne hanno parlato i giornali la cosa ha fatto scalpore. Nel rapporto finale, però, questo fatto è sparito. È stato un errore innocente, o qualcuno ha ricevuto una gentile pacca sulla spalla con acciaio integrato?
Il 12 ottobre 2009 l’assemblea pubblica con i rappresentanti di Tata steel, che si sarebbe dovuta svolgere a Lohandiguda per consentire la partecipazione dei locali, si è tenuta in una saletta dell’esattoria di Jagdalpur, a molti chilometri di distanza, picchettata da un imponente servizio d’ordine. Un pubblico di cinquanta indigeni prezzolati è stato fatto entrare scortato da un convoglio armato di jeep del governo. Dopo l’incontro, l’esattore del distretto si è congratulato con “la gente di Lohandiguda” per la collaborazione. I giornali locali, pur sapendo come stavano le cose, hanno pubblicato la bugia (gli spazi pubblicitari sono andati a ruba). Nonostante le proteste degli abitanti dei villaggi, l’acquisizione dei terreni per il progetto industriale è cominciata.
I maoisti non sono gli unici che cercano di destabilizzare il governo indiano. È già stato destabilizzato molte volte dal fondamentalismo indù e dal totalitarismo economico. Lohandiguda, a cinque ore di macchina da Dantewada, non era mai stata una zona naxalita. Ma oggi lo è. La compagna Joori – quella che era seduta accanto a me mentre mangiavo il chutney di formiche – lavora in quella zona. Dice che hanno deciso di occuparla quando sui muri dei villaggi sono apparse le prime scritte che dicevano: “Naxaliti, venite a salvarci!”. Qualche mese fa, Vimal Meshram, presidente del panchayat del villaggio, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco al mercato.
“Era un uomo della Tata”, dice Joori. “Costringeva la gente a cedere la terra e accettare un risarcimento. È un bene che sia morto. Anche noi abbiamo perso un compagno. Gli hanno sparato. Vuoi altro chapoli?”. Ha solo vent’anni. “Non permetteremo agli uomini di Tata steel di entrare in quella zona. La gente non li vuole”. Joori non è un membro del Plga. Fa parte del Chetna Natya Manch (Cnm), l’ala culturale del Partito. Canta. Scrive canzoni. Viene da Abujhmad (è sposata con il compagno Madhay. Si è innamorata del suo modo di cantare quando Madhay è passato dal suo villaggio con un gruppo del Cnm).
Sento che dovrei dire qualcosa, a questo punto. Sull’inutilità della violenza, sull’inaccettabilità delle esecuzioni sommarie. Ma cosa dovrei consigliare a questa gente, come alternativa? Di rivolgersi ai tribunali? Di fare un dharna, il digiuno e la preghiera rituali, a New Delhi? Un raduno? Uno sciopero della fame a oltranza? Sarebbe ridicolo. Dovremmo chiedere ai promotori della New economic policy, che trovano così facile dire che “non c’è alternativa”, di suggerire una politica di resistenza alternativa. Un’alternativa specifica, per queste specifiche persone, per questa specifica foresta. Qui. Ora. Per quale Partito dovrebbero votare? A quale istituzione democratica, in questo paese, dovrebbero rivolgersi? A quale porta non ha bussato il Narmada Bachao Andolan, nei tanti anni in cui si è battuto contro le grandi dighe sul fiume Narmada?
È buio. C’è grande attività nel campo, ma non si vede niente. Solo puntini di luce che si muovono. Difficile dire se siano stelle o lucciole o maoisti in movimento. Il piccolo Mangtu sbuca fuori dal nulla. Ho scoperto che fa parte del primo gruppo di allievi della Scuola itinerante per giovani comunisti, dove i ragazzi imparano a leggere e a scrivere, oltre ai princìpi fondamentali del comunismo (“Indottrinano le giovani menti!”, si sgolano i nostri grandi mezzi d’informazione. Le pubblicità televisive che fanno il lavaggio del cervello ai bambini prima ancora che siano in grado di pensare, invece, non sono considerate una forma di indottrinamento). I giovani comunisti non sono autorizzati a portare armi o a indossare uniformi. Ma seguono le squadre del Plga con occhi sognanti, come groupie al seguito di una rock band.
Mangtu, che mi ha adottato, mi tratta con piglio gentilmente padronale. Ha riempito d’acqua la mia bottiglia e dice che dovrei preparare lo zaino. Il suono di un fischietto. In cinque minuti netti, la tenda blu del jhilli viene smantellata e ripiegata. Un altro fischio e tutti e cento i compagni si mettono in riga. Disposti su cinque file. Il capo delle operazioni è il compagno Raju. Si fa l’appello. Sono in fila anch’io, e grido il mio numero al segnale della compagna Kamla, che mi sta davanti (contiamo fino a venti e poi ripartiamo da uno, perché la maggior parte dei gond non sa contare oltre. Per loro, venti bastano. Forse dovrebbero bastare anche a noi). Chandu è in tuta, ora, e imbraccia una mitragliatrice leggera.
A bassa voce, il compagno Raju sta dando istruzioni al gruppo. Parla in gondi, io non capisco niente, ma continuo a sentire la parola “errevù”. Più tardi, Raju mi spiega che sta per rendez-vous! È una parola gondi, ora. “Stabiliamo dei punti rv, così se ci sparano addosso e dobbiamo dividerci, sappiamo dove ricomporre il gruppo”. Non immagina quanto questo mi getti nel panico. Non è tanto la paura che mi sparino addosso, è la paura di perdermi. Sono una dislessica direzionale, riesco a perdermi tra la camera da letto e il bagno. Cosa farò in sessantamila chilometri quadrati di foresta? Cascasse il mondo, io resto incollata al compagno Raju.
Quando stiamo per rimetterci in cammino, il compagno Venu viene da me: “Allora, compagna. Vengo a salutarti”. Mi coglie di sorpresa. Sembra una piccola zanzara col cappello e i sandali, lì in mezzo alle sue guardie, tre donne e tre uomini. Armato fino ai denti. “Ti siamo molto grati, compagna, di essere venuta fin qui”, dice. Ancora una volta, la stretta di mano, il pugno chiuso. “Lal salaam, compagna”. E scompare nella foresta, il Custode delle chiavi. Un attimo dopo è come se non fosse mai stato qui. Provo un senso di perdita. Ma ho ore di registrazione da ascoltare. E col passare dei giorni e delle settimane incontrerò molte persone che aggiungeranno colori e dettagli al quadro tracciato da Venu. Ci incamminiamo nella direzione opposta. Il compagno Raju, che odora di Iodex a un chilometro di distanza, dice con un sorriso: “Le mie ginocchia sono partite. Posso camminare solo dopo aver mandato giù una manciata di antidolorifici”.
Il compagno Raju parla un hindi perfetto e sa raccontare le storie più buffe senza scomporsi. Ha militato per diciott’anni a Raipur. Lui e sua moglie Malti erano iscritti al Partito e facevano parte della sua rete cittadina locale. Alla fine del 2007, uno degli esponenti di punta della rete è stato arrestato, torturato e alla fine trasformato in informatore. Veniva accompagnato in giro per Raipur a bordo di un’auto della polizia, e costretto a indicare i suoi ex compagni. La compagna Malti era una di loro. Il 22 gennaio 2008 è stata arrestata insieme a molti altri. L’accusa contro di lei era di avere spedito a diversi membri del parlamento alcuni cd con dei video che documentavano le atrocità commesse dal Salwa judum. È ancora in attesa di processo perché la polizia sa di non avere prove convincenti contro di lei. Ma il Chhattisgarh special public security act (Cspsa) stabilisce che possono trattenerla per anni, senza fissare una cauzione.
“Ora il governo del Chhattisgarh impiega diversi battaglioni di polizia per proteggere i poveri membri del parlamento dalla loro corrispondenza”, dice il compagno Raju. Lui non è stato preso perché era nel Dandakaranya, all’epoca, per partecipare a una riunione. Da allora è sempre stato qui. I suoi due figli piccoli, che erano rimasti a casa da soli, sono stati interrogati a lungo dalla polizia. Alla fine la casa è stata svuotata e i bambini sono andati a vivere con uno zio. Il compagno Raju ha avuto loro notizie per la prima volta solo qualche settimana fa.
Cos’è che gli dà questa forza, questa capacità di non rinunciare al suo umorismo caustico? Cos’è che fa andare avanti tutte queste persone, nonostante quello che hanno sopportato? La fiducia e la speranza – e l’amore – che ripongono nel Partito. Sono sentimenti che incontro continuamente, espressi nei modi più profondi e personali.
Ci muoviamo in fila per uno, ora. Io e cento ribelli “irrazionalmente violenti” e assetati di sangue. Prima di lasciare il campo mi sono guardata intorno. A parte la cenere dov’erano stati accesi i fuochi, non c’era traccia di un accampamento di quasi cento persone. È incredibile, questo esercito. Dal punto di vista del consumo, è più gandhiano di un gandhiano, e ha un impatto ambientale più leggero di quello di un qualsiasi apostolo del cambiamento climatico. Per ora, perfino il suo approccio al sabotaggio è gandhiano: prima di bruciare un’auto della polizia, per esempio, i guerriglieri la smontano per riciclarne tutte le parti. Il volante viene raddrizzato e trasformato in un fucile a carica frontale, la tappezzeria in resina viene usata per farne borse da munizioni, e la batteria come carica solare (le nuove disposizioni del comando supremo sono che le vetture catturate devono essere sotterrate, e non bruciate. Così, potranno essere recuperate al bisogno). E se scrivessi una commedia intitolata Gandhi prendi il fucile? Sarei linciata?
Avanziamo nel buio e nel silenzio più totali. Io sono l’unica che usa una torcia. Puntandola per terra, nel suo cerchio di luce vedo solo i calcagni nudi della compagna Kamla, infilati nei sandali neri e logori, che mi indicano esattamente dove mettere i piedi. Kamla porta un peso che è dieci volte quello che porto io. Lo zaino, il fucile, una grossa borsa di provviste sulla testa, una delle grandi pentole per cucinare e due sacchi pieni di ortaggi in spalla. Tiene la borsa in perfetto equilibrio sulla testa, scapicollandosi lungo ripidi pendii e sentieri scoscesi, senza mai neppure sfiorarla. Quella donna è un miracolo. Il viaggio a piedi sarà lungo. Sono grata alla lezione di storia perché, a parte tutto, ha permesso ai miei piedi di riposare per una giornata intera. È una cosa stupenda camminare di notte nella foresta.
E lo farò tutte le notti.
Siamo diretti alle celebrazioni per il centenario della rivolta di Bhumkal del 1910, quando i koya sono insorti contro gli inglesi. Bhumkal significa terremoto. Il compagno Raju dice che le persone camminano per giorni per partecipare ai festeggiamenti. La foresta dev’essere piena di persone in viaggio. Si festeggia in tutte le divisioni del Dandakaranya. Noi siamo fortunati perché col nostro gruppo viaggia il compagno Leng, il cerimoniere. In gondi, Leng significa “la voce”. Il compagno Leng è un uomo alto, di mezza età, originario dell’Andhra Pradesh e collega del leggendario e amato poeta-cantante Gaddar, che ha fondato l’organizzazione culturale radicale Jan natya manch (Jnm) nel 1972. Alla fine, il Jnm è confluito ufficialmente nel Pwg, quando nell’Andhra Pradesh il Partito aveva già un seguito di decine di migliaia di persone. Leng è entrato nell’organizzazione nel 1977, diventando anche lui un cantante famoso. Viveva nell’Andhra ai tempi della repressione più dura, quella dei “falsi incontri”, in cui quasi ogni giorno morivano suoi amici. Lui stesso è stato prelevato dal suo letto di ospedale da una commissaria di polizia travestita da medico. È stato portato nella foresta fuori da Warangal per essere “incontrato”. Fortunatamente, Gaddar è venuto a saperlo ed è riuscito a dare l’allarme. Quando, nel 1998, il Partito ha deciso di creare un’organizzazione culturale nel Dandakaranya, ha inviato il compagno Leng a dirigere il Chetna Natya Manch (Cnm). E ora eccolo qui, che cammina con me.
Per qualche motivo indossa una camicia verde e dei pajama viola con coniglietti rosa. “Oggi il Cnm ha diecimila iscritti”, mi ha detto. “Abbiamo un repertorio di cinquecento canzoni, in hindi, gondi, chhattisgarhi e halbi. Abbiamo pubblicato un libro con 140 delle nostre canzoni. Tutti scrivono canzoni”. La prima volta che gli ho parlato aveva un tono molto grave, molto determinato. Ma qualche giorno dopo, seduto con noi intorno al fuoco, sempre con gli stessi pantaloni coi coniglietti, ci racconta di un regista famoso (un suo amico) che nei suoi film in telugu interpreta sempre un naxalita. “Gli ho chiesto”, racconta il compagno Leng, parlando in hindi ma col suo gradevole accento telugu, “perché pensi che i naxaliti siano tutti così?”. E si è esibito nella brillante caricatura di un uomo che sbuca dalla foresta impugnando il suo Ak-47, e avanza con passo felpato sulle ginocchia piegate, come un animale braccato. Siamo morti dal ridere.
Non so se ho tanta voglia di assistere alle celebrazioni del Bhumkal. Ho paura che vedrò danze tradizionali irrigidite dalla propaganda maoista, discorsi pieni di enfasi retorica, e un pubblico devoto e con gli occhi lucidi. Arriviamo sul posto la sera tardi. È stato eretto un monumento provvisorio, fatto di impalcature di bambù rivestite di tessuto rosso. Sulla cima, sopra la falce e martello del Partito maoista, ci sono l’arco e la freccia del Janatana sarkar, avvolti nella carta stagnola. Gerarchia appropriata. Il palco immenso, provvisorio anche quello, poggia su una robusta impalcatura coperta da uno spesso strato di intonaco di fango. Ci sono piccoli falò sparsi qua e là: i partecipanti hanno cominciato ad arrivare e si sono messi a preparare la cena. Sono solo sagome nel buio. Ci facciamo strada fra loro (lalsalaam, lalsalaam, lalsalaam) e avanziamo per circa un quarto d’ora finché non rientriamo nella foresta.
Nel nostro nuovo accampamento dobbiamo rimetterci in riga. Un altro appello. E poi è il momento delle istruzioni sulle postazioni delle sentinelle e gli “archi di tiro”, per assegnare le varie zone da coprire in caso di attacco della polizia. Di nuovo, vengono fissati i punti rv.
Un’avanguardia è arrivata prima di noi e ha già preparato la cena. Per dessert, Kamla mi porta un guava selvatico che ha colto durante il cammino e messo da parte per me. A partire dall’alba si avverte la presenza di un numero sempre maggiore di persone che arrivano per le celebrazioni. Il mormorio di eccitazione aumenta. Persone che non si vedevano da tanto tempo si ritrovano. Sentiamo i rumori delle prove microfono. Vediamo spuntare bandiere, bandierine, striscioni e cartelli. Appare un cartello con le foto delle cinque persone uccise a Ongnaar il giorno del nostro arrivo.
Un tè con i biscotti nella foresta
Sto bevendo tè con la compagna Narmada, la compagna Maase e la compagna Rupi. La compagna Narmada parla dei molti anni in cui ha lavorato a Gadchiroli prima di diventare responsabile del Krantikari adivasi mahila sangathan, nel Dandakaranya. Rupi e Maase hanno militato nelle zone urbane dell’Andhra Pradesh, e mi raccontano dei lunghi anni di lotta delle donne all’interno del Partito, non solo per affermare i loro diritti, ma per convincere il Partito che l’uguaglianza tra uomini e donne doveva essere al centro di un ideale di società giusta. Parliamo di anni settanta, e di storie di donne che all’interno del movimento naxalita erano deluse dai compagni maschi che si credevano grandi Verso mezzogiorno arriva un altro contingente del Plga. È guidato da un ragazzo alto e scattante che sembra un bambino. È ben vestito, in civil (che in gondi significa “in abiti civili”) anziché in dress (la divisa maoista), sembra quasi un giovane manager. Gli chiedo perché non indossa l’uniforme. Dice che è stato in viaggio e che è appena tornato dalle montagne di Keshkal, vicino a Kanker. Da alcuni rapporti risulta che una certa compagnia Vedanta abbia messo gli occhi su tre milioni di tonnellate di bauxite.
Bingo. Il mio istinto ha fatto centro.
Sukhdev dice che è andato lì per misurare la temperatura. Per vedere se le persone sono pronte a combattere. “Vogliono subito le squadre. E i fucili”. Scoppia in una risata, gettando la testa indietro. “Gli ho detto: non è così facile, fratello”. Dai brani sparsi di conversazione e dalla disinvoltura con cui porta il suo Ak-47, capisco che è anche un veterano del Plga.
Arriva la posta della giungla. C’è un biscotto per me! È da parte del compagno Venu. Su un pezzettino di carta, piegato e ripiegato, ha scritto i versi di una canzone che aveva promesso di spedirmi. La compagna Narmada sorride, leggendoli. Conosce la storia. Risale agli anni ottanta, all’epoca in cui la gente ha cominciato a fidarsi del Partito e a sottoporgli i suoi problemi, le sue “contraddizioni interne” come le ha definite il compagno Venu. Le donne sono state le prime a farsi avanti. Una sera, un’anziana che era seduta davanti al fuoco si è alzata in piedi e ha cantato una canzone per il dada log. Apparteneva alla tribù maadiya, dove tradizionalmente alle donne sposate veniva imposto di togliere la parte di sopra del vestito e restare a seno nudo.
Dicono che non possiamo tenerci la blusa,
Dada, Dakoniley
Ci costringono a toglierla, Dada,
In che modo abbiamo peccato, Dada?
Il mondo è cambiato, non è vero, Dada?
Ma quando andiamo al mercato, Dada,
Dobbiamo andarci seminude, Dada,
Noi non vogliamo questa vita, Dada,
Dillo ai nostri antenati, Dada.
Ecco la prima questione femminile per cui il Partito ha deciso di battersi. Doveva essere affrontata con delicatezza, con strumenti chirurgici. Così, nel 1986 è nato l’Adivasi mahila sangathan (Ams), che poi è diventato il Krantikari adivasi mahila sangathan e oggi ha novantamila iscritte. Probabilmente è la più grande organizzazione femminile del paese (sono maoiste, tra l’altro, tutte e novantamila. Saranno “annientate”? E i diecimila membri del Cnm? Anche loro?). Il Kams conduce campagne contro le tradizioni adivasi del matrimonio forzato e del rapimento di donne. Contro l’usanza di costringere le donne che hanno le mestruazioni a vivere fuori dal villaggio, in una capanna nella foresta. Contro la bigamia e la violenza domestica.
Non avrà vinto tutte le battaglie, ma quali femministe le hanno vinte? Per esempio, ancora oggi nel Dandakaranya alle donne è interdetta la semina. Alle riunioni del Partito, gli uomini concordano che è una tradizione ingiusta e andrebbe abolita. Ma poi, in pratica, la gente non lo permette. Così, il Partito ha deciso di consentire alle donne di lavorare le terre comuni di proprietà del Janatana sarkar. Su quelle terre possono seminare, coltivare ortaggi e costruire piccole dighe di sbarramento. Una vittoria, anche se a metà. Con l’intensificarsi della repressione nel Bastar, le donne del Kams sono diventate una forza straordinaria e si radunano a centinaia, a volte anche migliaia, per battersi fisicamente contro la polizia. L’esistenza stessa del Kams ha modificato radicalmente le usanze tribali e attenuato molte forme tradizionali di discriminazione femminile. Per molte ragazze entrare nel Partito, soprattutto nel Plga, è un modo per sfuggire alla morsa soffocante della loro società.
La compagna Sushila, dirigente anziana del Kams, parla del furore del Salwa judum contro le donne dell’organizzazione. Racconta che uno dei loro slogan era Hum do bibi layenge! Layenge! (Avremo due mogli! Le avremo!). Una gran parte delle violenze e delle bestiali mutilazioni venivano inflitte proprio alle donne del Kams. Molte delle giovani testimoni di quegli orrori sono entrate nel Plga e oggi sono il 45 per cento dei suoi quadri. La compagna Narmada ne manda a chiamare alcune, che dopo poco ci raggiungono.
La compagna Rinki ha i capelli cortissimi. Un caschetto, come lo chiamano in gondi. È una scelta coraggiosa, perché qui “caschetto” significa “maoista”. Per la polizia basta a giustificare un’esecuzione sommaria. Il suo villaggio, Korma, è stato attaccato dal battaglione Naga e dal Salwa judum nel 2005. All’epoca, Rinki faceva parte della milizia del villaggio, come le sue amiche Lukki e Sukki, anche loro nel Kams. Dopo aver bruciato il villaggio, gli uomini del battaglione Naga hanno catturato Lukki, Sukki e una terza ragazza, le hanno stuprate e poi uccise. “Le hanno violentate sul prato”, racconta Rinki, “e quando hanno finito, di erba non ce n’era più”. Sono passati anni, ormai, il battaglione Naga non esiste più, ma la polizia arriva ancora. “Vengono quando hanno bisogno di donne, o di polli”.
Anche Ajitha ha il caschetto. Lo Judum è arrivato a Korseel, il suo villaggio, e ha ucciso tre persone annegandole in un fiume. Ajitha era con la milizia e ha seguito lo Judum a distanza fino a Paral Nar Todak, un posto vicino al villaggio. Li ha visti violentare sei donne e sparare alla gola di un uomo. La compagna Laxmi, una bella ragazza con una lunga treccia, mi racconta di aver visto lo Judum bruciare trenta case nel suo villaggio, Jojor. “Non avevamo armi, allora”, dice. “Potevamo solo restare a guardare”. Poco dopo è entrata a far parte del Plga. Laxmi era fra i centocinquanta guerriglieri che hanno marciato nella giungla per tre mesi e mezzo, nel 2008, fino a Nayagarh nell’Orissa, per assaltare un’armeria della polizia da cui hanno portato via 1.200 fucili e duecentomila proiettili.
La compagna Sumitra è entrata nel Plga nel 2004, prima che il Salwa judum cominciasse le sue scorrerie. C’è entrata, dice, per scappare di casa. “Le donne sono controllate in tutti i sensi”, mi ha raccontato. “Nel nostro villaggio, le ragazze non potevano arrampicarsi sugli alberi. Se lo facevi, dovevi pagare una multa: cinquecento rupie o una gallina. Se un uomo picchia una donna e la donna reagisce picchiandolo a sua volta, deve dare al villaggio una capra. Gli uomini stanno via per mesi, sulle colline, per cacciare. Le donne non possono neppure avvicinarsi alla selvaggina, la parte migliore della carne va agli uomini. Non possono neanche mangiare le uova”. Un buon motivo per unirsi a un esercito di guerriglia? Sumitra racconta la storia di due sue amiche, Telam Parvati e Kamla, che lavoravano per il Kams. Telam Parvati era di Polekaya, un villaggio nel sud del Bastar. Come tutti i suoi compaesani, anche lei aveva visto il Salwa judum bruciare il suo villaggio. Poi era entrata nel Plga ed era andata a lavorare sulle montagne di Keshkal. Nel 2009 lei e Kamla avevano appena finito di organizzare le celebrazioni dell’8 marzo, la festa della donna, in quella zona. Si trovavano insieme in una piccola capanna appena fuori dal villaggio di Vadgo. La polizia ha circondato la capanna di notte e ha cominciato a sparare. Kamla ha risposto al fuoco, ma è rimasta uccisa. Parvati è fuggita, ma è stata trovata e uccisa il giorno dopo.
Questo è quello che è successo l’anno scorso, il giorno della festa della donna. Ed ecco l’articolo di un quotidiano nazionale, sull’8 marzo di quest’anno:
I ribelli del Bastar si battono per i diritti delle donne
Sahar Khan, Mail Today, Raipur, 7 marzo 2010
Il governo ha messo in campo tutte le sue forze per combattere la minaccia maoista nel paese. Ma una sezione di ribelli del Chhattisgarh ha questioni più urgenti di cui occuparsi, che non la sopravvivenza. In previsione della Festa internazionale della donna, i maoisti della regione del Bastar hanno indetto una settimana di “celebrazioni” per promuovere i diritti delle donne. Sono stati affissi manifesti anche a Bijapur, un’area del distretto di Bastar. La campagna dei sedicenti difensori dei diritti delle donne ha lasciato di stucco la polizia di stato. L’ispettore generale della polizia del Bastar, T.J. Longkumer, ha dichiarato: “Non mi aspettavo niente di simile dai naxaliti, che credono solo nella violenza e nello spargimento di sangue”.
E poi l’articolo prosegue:
“Credo che i maoisti stiano cercando di contrastare il grande successo della Jan jagran abhiyaan (campagna di consapevolezza di massa). Abbiamo lanciato quella campagna per promuovere l’operazione Green hunt, con cui la polizia intende sradicare gli estremisti di sinistra”, ha dichiarato l’ispettore generale.
Malizia e ignoranza
Questo cocktail di malizia e ignoranza non è insolito. Ne sa qualcosa Gudsa Usendi, il cronista del Partito. Il suo piccolo computer e il registratore mp3 sono pieni zeppi di comunicati stampa, smentite, rettifiche, documenti di Partito, liste di morti, materiali audio e video. “La cosa peggiore del lavoro del portavoce”, spiega, “è inviare rettifiche che non vengono mai pubblicate. Con tutte le rettifiche non pubblicate che abbiamo inviato per smentire le bugie scritte su di noi, potremmo farci un libro alto così”. Parla senza ombra di indignazione, in realtà, quasi divertito.
“Qual è l’accusa più ridicola che avete dovuto negare?”. Lui ci pensa un attimo. “Nel 2007 abbiamo dovuto rilasciare una dichiarazione che diceva: ‘No, fratelli, non siamo stati noi a uccidere le mucche a martellate’. Nel 2007 il governo di Raman Singh ha annunciato un Gaj yojana (piano mucche), una promessa elettorale: una mucca per ogni adivasi. Un giorno la tv e i giornali hanno dato la notizia che i naxaliti avevano attaccato una mandria di mucche e le avevano uccise a martellate perché erano contro l’induismo, contro il Bharatiya janata party. Puoi immaginare cosa è successo. Abbiamo rilasciato una smentita. Quasi nessuno l’ha pubblicata. Più tardi, si è scoperto che l’uomo a cui erano state date le mucche per distribuirle era un delinquente. Le aveva vendute e aveva detto che gli avevamo teso un’imboscata e le avevamo uccise”.
E la più grave?
“Oh, ce ne sono decine. D’altra parte, c’è una campagna in corso. Quando è nato il Salwa judum, il primo giorno ha attaccato il villaggio di Ambeli e l’ha bruciato. Dopodiché tutti i suoi uomini – gli Spo, il battaglione Naga, la polizia – si sono diretti a Kotrapal. Avrai sentito parlare di Kotrapal. È un villaggio famoso. Era già stato bruciato 22 volte perché i suoi abitanti si erano rifiutati di arrendersi. Quando lo Judum è arrivato a Kotrapal, la nostra milizia lo stava aspettando. Gli abbiamo teso un’imboscata. Due Spo sono morti. Ne abbiamo catturati sette, gli altri sono fuggiti. Il giorno dopo, i giornali hanno scritto che i naxaliti avevano massacrato dei poveri adivasi. Alcuni hanno scritto che ne avevamo uccisi centinaia. Perfino una rivista autorevole come Frontline ha scritto che avevamo ucciso diciotto adivasi innocenti. Perfino Kandalla Balagopal, l’attivista per i diritti umani scomparso da poco, di solito molto meticoloso nella ricostruzione dei fatti, perfino lui l’ha detto. Abbiamo inviato una smentita. Nessuno l’ha pubblicata. In seguito, nel suo libro, Balagopal ha riconosciuto il suo errore. Ma chi se n’è accorto?”.
Gli ho chiesto che fine avessero fatto le sette persone catturate. “Il comitato di zona ha convocato uno jan adalat (tribunale del popolo). Erano presenti quattromila persone. Hanno ascoltato tutta la storia. Due degli Spo sono stati condannati a morte. Gli altri cinque sono stati ammoniti e rilasciati. Ha deciso il popolo. Anche quando si tratta di informatori – che di questi tempi stanno diventando un grosso problema – la gente ascolta i fatti, le storie, le confessioni e poi decide: ‘Non siamo pronti ad assumerci il rischio di fidarci di questa persona’, o ‘Siamo pronti ad assumerci il rischio di fidarci di questa persona’. La stampa dà notizia solo degli informatori che vengono uccisi. Mai dei tanti che sono rilasciati. Quindi tutti pensano che sia una pratica sanguinaria che non lascia scampo. Non è una questione di vendetta, ma di sopravvivenza, di vite umane da salvare. Certo, ci sono dei problemi, abbiamo fatto errori spaventosi. Nelle nostre imboscate abbiamo perfino ucciso le persone sbagliate, scambiandole per poliziotti. Ma i mezzi d’informazione non raccontano le cose come stanno”.
I temuti tibunali del popolo. Come possiamo accettarli? O avallare questa rozza forma di giustizia? D’altro canto, cosa dovremmo dire degli “incontri”, veri o falsi che siano – la forma peggiore di giustizia sommaria – che fruttano a poliziotti e soldati medaglie al valore, premi in denaro e promozioni speciali da parte del governo indiano? Più uccidono, più sono ricompensati. Li chiamano “Braveheart”, questi encounter specialist (specialisti degli incontri). E chiamano “antinazionalisti” quelli di noi che osano metterli in discussione. E che dire della Corte suprema, che ha sfacciatamente ammesso di non avere avuto prove sufficienti per condannare a morte Mohammed Afzal (incriminato per l’attacco al parlamento del dicembre 2001), ma di averlo condannato lo stesso perché “la coscienza collettiva della società è soddisfatta solo se al colpevole viene comminata la pena capitale”? Se non altro, nel caso del jan adalat di Kotrapal la collettività era fisicamente presente e ha potuto decidere. La decisione non è stata presa da giudici che ormai hanno perso ogni contatto con la realtà e pretendono di parlare a nome di una collettività assente. Cosa avrebbero dovuto fare gli abitanti di Kotrapal, mi chiedo? Chiamare la polizia?
Il suono dei tamburi è diventato molto forte. È l’ora del Bhumkal. Andiamo sul luogo del raduno. Non credo ai miei occhi. C’è un mare di gente, la gente più strana e meravigliosa, vestita nei modi più strani e meravigliosi. Gli uomini sembrano aver curato il loro aspetto molto più delle donne. Sfoggiano copricapo piumati e tatuaggi colorati sul volto. Molti si sono truccati gli occhi e imbiancati il viso. Ci sono molti militari, ragazze che indossano sari sgargianti portando con disinvoltura il fucile a tracolla. Ci sono anziani, bambini, e un arco di bandierine rosse nel cielo. Il sole è alto, brucia.
Parla il compagno Leng. Poi tocca ai funzionari dei vari Jantana sarkar. La compagna Niti, una donna straordinaria, iscritta al Partito dal 1997, è una così grande minaccia per il paese che nel gennaio del 2007 più di settecento poliziotti hanno circondato il villaggio di Innar perché avevano saputo che c’era lei. La compagna Niti è considerata così pericolosa ed è ricercata con tanto accanimento non perché abbia guidato molte imboscate (cosa che ha fatto), ma perché è una donna adivasi amata dalla gente, e un esempio per i giovani. Parla col suo Ak in spalla (è un fucile con una storia. Quasi ogni fucile ha una sua storia, quella che racconta come, a chi e da chi è stato rubato).
Un gruppo del Cnm inscena una commedia sulla rivolta di Bhumkal. I malvagi colonizzatori bianchi indossano cappelli sotto ai quali spuntano parrucche di paglia dorata, e tiranneggiano gli adivasi di fronte a un pubblico estasiato. Qualche altro discorso. Poi attaccano i tamburi e cominciano le danze. Ogni Janatana sarkar ha la sua compagnia. Ogni gruppo ha preparato un suo pezzo. Arrivano uno dopo l’altro, con grandi tamburi, e danzano le storie più incredibili. L’unico personaggio che compare in tutte le coreografie è “l’uomo cattivo delle miniere”, con casco e occhiali scuri, e di solito una sigaretta in bocca. Ma non c’è niente di rigido o di meccanico nel loro modo di muoversi. Mentre danzano, si alza la polvere. Il rumore dei tamburi diventa assordante. Gradualmente, la folla comincia a ondeggiare. E poi a danzare. Danzano in file di sei o sette, donne e uomini separati, cingendosi per la vita. Migliaia di persone. Ecco perché sono venuti. Per questo. La felicità viene presa molto sul serio qui, nella foresta del Dandakaranya. Gli abitanti dei villaggi fanno chilometri insieme, per festeggiare e cantare, per infilarsi piume nei turbanti e fiori nei capelli, per abbracciarsi e bere mahua e danzare tutta la notte. Nessuno canta o danza da solo. È questo, più di qualsiasi altra cosa, il loro gesto di sfida verso una civiltà che cerca di annientarli.
Mi sembra impossibile che tutto ciò stia accadendo sotto il naso della polizia. In piena operazione Green hunt. All’inizio, i compagni del Plga se ne stanno in disparte con i loro fucili, a guardare i ballerini. Poi, uno dopo l’altro, come anatre che non ce la fanno più a restare a guardare altre anatre che nuotano, si fanno avanti e si mettono a danzare. Ben presto, ci sono file di verdi danzanti, che volteggiano insieme a tutti gli altri colori. E ogni volta che sorelle e fratelli e genitori e figli e amici che non si vedono da mesi, a volte da anni, s’incontrano, le file si rompono e si riformano, e il verde si mescola a sari svolazzanti e fiori e tamburi e turbanti. È proprio un esercito del popolo. Per ora, almeno. E quello che diceva il presidente Mao, che i guerriglieri sono i pesci e il popolo l’acqua in cui nuotano, in questo momento è letteralmente vero.
Il presidente Mao. È qui anche lui. Un po’ solo, forse, ma presente. C’è una sua fotografia, su un drappo rosso. Ce n’è anche una di Marx. E di Charu Mazumdar, il fondatore e principale ideologo del movimento naxalita. La sua ruvida retorica esalta la violenza, il sangue e il martirio, spesso con un linguaggio così crudo da suonare quasi genocida. Qui in piedi, nel giorno del Bhumkal, non posso fare a meno di pensare quanto sia lontana la sua analisi, così essenziale alla struttura della sua rivoluzione, dal suo contesto emotivo. Quando ha dichiarato che solo “una campagna di annientamento” poteva produrre “l’uomo nuovo che sfiderà la morte e sarà libero da ogni traccia di interesse egoistico”, avrebbe mai immaginato che un giorno il suo sogno si sarebbe appoggiato sulle spalle di questo popolo che ora danza nella notte?
Di tutto quello che sta succedendo qui, l’unica cosa che arriva al mondo esterno è la rigida e inflessibile retorica degli ideologi di un Partito nato da un passato problematico. Ed è un pessimo servizio reso alla realtà dei fatti. Quando Charu Mazumdar pronunciò la famosa frase “Il presidente della Cina è il nostro Presidente, e la via della Cina è la nostra via”, diceva talmente sul serio che i naxaliti restarono in silenzio mentre il generale Yahya Khan commetteva un genocidio nel Pakistan orientale (Bangladesh), perché allora la Cina era alleata di Islamabad.
Silenzio anche sui campi di sterminio dei khmer rossi in Cambogia. Silenzio sui clamorosi eccessi della rivoluzione cinese e di quella russa. Silenzio sul Tibet. Anche all’interno del movimento naxalita ci sono stati eccessi violenti, ed è impossibile difendere molte delle cose che hanno fatto. Ma qualsiasi cosa abbiano fatto, è paragonabile alle sordide vittorie del Partito del congresso e del Bjp nel Punjab, nel Kashmir, a New Delhi, a Mumbai, nel Gujarat?
Eppure, nonostante queste terribili contraddizioni, Charu Mazumdar era per molti versi un idealista. Il Partito che ha fondato (con le sue molte emanazioni) ha tenuto vivo il sogno rivoluzionario in India. Immaginate una società senza quel sogno. Anche solo per questo, non possiamo giudicarlo troppo severamente. Soprattutto non quando poi ci nascondiamo dietro alla pia storiella gandhiana della superiorità della nonviolenza e dell’idea di amministrazione fiduciaria: “Al ricco sarà lasciato il possesso della sua ricchezza, di cui userà quanto è ragionevolmente necessario ai suoi bisogni personali, e farà da fiduciario del resto, che verrà usato per il bene della società”. Che strano, però. Oggi, i moderni zar dell’establishment indiano – quello stato che ha così spietatamente schiacciato i naxaliti – dicono le stesse cose che diceva Charu Mazumdar tanto tempo fa: “La via della Cina è la nostra via”.
Sottosopra. Alla rovescia.
La via della Cina è cambiata. La Cina è diventata una potenza imperialista, che depreda altri paesi, saccheggia le risorse di altri popoli. Il partito ha sempre ragione, solo che ha cambiato idea. Quando il partito è un pretendente che corteggia la popolazione ed è attento ai bisogni di tutti (come oggi nel Dandakaranya), allora è anche un autentico partito del popolo, e il suo esercito un autentico esercito del popolo. Ma, dopo la rivoluzione, è molto facile che questo idillio si trasformi in un matrimonio infelice. È facile che l’esercito del popolo si rivolti contro il suo stesso popolo. Oggi, nel Dandakaranya, il Partito vuole che la bauxite resti nella montagna. Domani potrebbe cambiare idea. Ma è giusto, o necessario, che le preoccupazioni per il futuro ci paralizzino nel presente?
Le danze proseguiranno tutta la notte. Maase è ancora sveglia. Chiacchieriamo fino a notte fonda. Le regalo la mia copia dei Versi del capitano di Neruda (l’avevo portato con me, per ogni evenienza). Lei continua a chiedermi: “Cosa pensano, fuori, di noi? Cosa dicono gli studenti? Raccontami del movimento delle donne, quali sono le grandi questioni, oggi?”. Mi chiede di me, del mio lavoro. Io cerco di farle un resoconto onesto del mio caos. Poi anche lei si mette a parlare di sé, di come è entrata nel Partito. Mi racconta che suo marito è stato ucciso a maggio dello scorso anno, in un falso scontro. Dopo un lungo silenzio, mi dice che era stata già sposata una volta, anni fa. “Anche lui è rimasto ucciso in uno scontro”. E aggiunge, con precisione struggente: “Ma uno scontro vero”.
La guerra prolungata
Stesa sul mio jhilli penso alla tristezza prolungata di Maase, mentre ascolto i tamburi e i suoni di felicità prolungata della festa, e penso all’idea di “guerra prolungata” di Charu Mazumdar, il precetto principale del Partito maoista. È per questo che molti non credono alla volontà dei maoisti di partecipare ai “colloqui di pace”. Pensano che sia solo uno stratagemma per prendere tempo e riorganizzarsi, per riarmarsi e riprendere la loro guerra prolungata. Che cos’è una guerra prolungata? È qualcosa di terribile in sé, o dipende dalla natura della guerra? E se la popolazione qui, nel Dandakaranya, non avesse condotto la sua guerra prolungata negli ultimi trent’anni, dove sarebbe ora?
I maoisti sono gli unici a credere nella guerra prolungata? Quando l’India è diventata una nazione sovrana, si è trasformata quasi subito in una potenza coloniale, annettendo territori, facendo guerre. Non ha mai esitato a ricorrere a interventi militari per affrontare problemi politici: nel Kashmir, a Hyderabad, Goa, Nagaland, Manipur, Telangana, Assam, Punjab, nelle rivolte naxalite nel Bengala occidentale, in Andhra Pradesh e ora nelle zone tribali dell’India centrale. Decine di migliaia di persone sono state uccise impunemente, centinaia di migliaia torturate. Tutto questo dietro la maschera benevola della democrazia.
Contro chi sono state condotte queste guerre? Musulmani, cristiani, sikh, comunisti, dalit, tribali, e soprattutto quei poveri che osano opporsi al loro destino, anziché accettare le briciole che gli vengono gettate. È difficile non vedere che lo stato indiano è essenzialmente uno stato di caste alte indù (a prescindere dal partito al governo), animato da un’istintiva ostilità verso l’“altro”. Uno stato che, in perfetto stile coloniale, invia i naga e i mizo a combattere in Chhattisgarh, i sikh in Kashmir, i kashmiri in Orissa, i tamil ad Assam, e così via. Se non è guerra prolungata questa, cos’è?
Pensieri sgradevoli in una bellissima notte stellata. Sukhdev sorride tra sé, il volto illuminato dallo schermo del computer. È uno stakanovista, nel lavoro. Gli chiedo cosa c’è da ridere. “Stavo pensando ai giornalisti che sono venuti l’anno scorso per le celebrazioni del Bhumkal. Sono rimasti un paio di giorni. Uno si è messo in posa col mio Ak per farsi fotografare, e quando poi è tornato a casa ci ha chiamato ‘macchine di morte’ o qualcosa del genere”.
Le danze proseguono, ed è l’alba. Le file continuano a muoversi, centinaia di giovani danzano ancora. “Non smetteranno”, dice il compagno Raju, “finché non togliamo le tende”. Incontro il compagno medico. Gestisce una piccola infermeria ai bordi della pista da ballo. Mi viene voglia di dargli un bacio sulle guance paffute. Perché non può essere almeno trenta persone, anziché una sola? Perché non può essere mille persone? Gli chiedo in quali condizioni di salute è il Dandakaranya. La sua risposta mi gela il sangue. La maggior parte delle persone che ha visitato, dice, inclusi i guerriglieri del Plga, ha un tasso di emoglobina che oscilla tra il cinque e il sei (la media per le donne indiane è di undici). C’è la tubercolosi, causata da più di due anni di anemia cronica. I bambini soffrono di malnutrizione proteico-energetica di secondo grado, che nel gergo medico si chiama kwashiorkor (poi l’ho cercato sul dizionario. È una parola che deriva dalla lingua ga delle coste del Ghana, bambino quando nasce il nuovo bambino”. In pratica, al primo figlio non viene più dato il latte materno e non c’è abbastanza cibo per sfamarlo).
“Qui è un’epidemia, come in Biafra”, dice il compagno medico. “Avevo già lavorato nei villaggi, ma non avevo mai visto niente di simile”. A parte questo, ci sono malaria, osteoporosi, tenia, gravi infezioni delle orecchie e dei denti e amenorrea primaria, cioè quando nel periodo della pubertà la malnutrizione provoca la scomparsa del ciclo femminile o addirittura ne blocca la comparsa. “Non ci sono ospedali in questa foresta, tranne uno a Gadchiroli. Niente dottori. Niente medicine”. È in partenza con la sua piccola squadra, per un viaggio di otto giorni a piedi fino ad Abujhmad. In divisa anche lui, il compagno medico. Quindi se lo trovano, lo ammazzano.
Il compagno Raju dice che non è sicuro restare accampati qui. Dobbiamo spostarci. Lasciare il Bhumkal implica lunghi addii che chiedono il loro tempo. Qui la cerimonia degli arrivi e delle partenze non è mai presa alla leggera, perché tutti sanno che quando dici “ci rivedremo presto”, in realtà stai dicendo “forse non ci rivedremo più”. La compagna Narmada, la compagna Maase e il compagno Rupi prendono direzioni diverse. Li rivedrò mai più?
Riprendiamo ancora una volta il cammino. Ogni giorno fa sempre più caldo. Kamla coglie il primo frutto di tendu per me. Sa di chikoo. Sono diventata una maniaca del tamarindo. Questa volta ci accampiamo vicino a un corso d’acqua. Donne e uomini fanno il bagno a turno, in gruppi. La sera, il compagno Raju riceve un intero pacchetto di “biscotti”. Notizie:
• Sessanta persone della divisione di Manpur, arrestate alla fine di gennaio 2010, non sono ancora state portate in tribunale.
• Enormi contingenti di polizia sono arrivati nel Bastar del sud. Attacchi indiscriminati in corso.
• 8 novembre 2009. Nel villaggio di Kachlaram sono stati uccisi Bijapur Jila, Dirko Madka (60 anni) e Kovasi Suklu (68 anni).
• 11 dicembre. Villaggio di Gumiapal, divisione di Darba, sette persone uccise (ancora sconosciuti i nomi).
• 15 dicembre, villaggio di Kotrapal, uccise Veko Sombar e Madavi Matti (entrambe del Kams).
• 30 dicembre, villaggio di Vechapal, uccisi Poonem Pandu e Poonem Motu (padre e figlio).
• 10 gennaio, tre persone uccise nel villaggio di Pullem Pulladi (ancora nessun nome).
• 25 gennaio, sette persone uccise nel villaggio di Takilod, zona di Indravati.
• 10 febbraio (Festa di Bhumkal), Kuumli stuprata e uccisa nel villaggio di Dumnaar, Abujhmad. Veniva da un villaggio chiamato Paiver.
• Duemila soldati della Indo-Tibetan Border Police (Itbp) stanziati nelle foreste del Rajnandgaon.
• Altri cinquemila soldati della Border Security Force arrivati a Kanker.
Sono arrivati anche alcuni vecchi giornali. Si parla molto dei naxaliti. Un titolo urlato sintetizza perfettamente il clima politico: “Eliminare, uccidere, costringere alla resa”. Sotto: “La porta della democrazia è sempre aperta al dialogo”. Un secondo giornale dice che i maoisti coltivano canapa per fare soldi. Il terzo ha un editoriale in cui si dice che la zona in cui siamo accampati e che stiamo attraversando a piedi è interamente sotto il controllo della polizia. I giovani comunisti portano via i ritagli per esercitarsi nella lettura. Passeggiano per il campo leggendo ad alta voce gli articoli antimaoisti con voci da annunciatori radiofonici.
Altro giorno. Altro posto. Siamo accampati fuori dal villaggio di Usir, sotto immensi alberi di mahua. Il mahua sta cominciando a fiorire e sparge i suoi boccioli verde pallido come gioielli sul suolo della foresta. L’aria è impregnata del suo profumo vagamente inebriante. La compagna Niti (ricercata) e il compagno Vinod ci accompagnano a fare un lungo giro per mostrarci le strutture di raccolta delle acque e i bacini d’irrigazione costruiti dai Janatan sarkar locali. La compagna Niti parla dei tanti problemi che devono affrontare. Solo il due per cento della terra è irrigata. Ad Abujhmad, fino a dieci anni fa non si conosceva l’aratro. Ma a Gadchiroli già cominciano ad arrivare i semi ibridi e i pesticidi chimici. “Abbiamo urgente bisogno di aiuto in campo agricolo”, dice il compagno Vinod. “Abbiamo bisogno di persone che conoscano i semi, i pesticidi organici, la permacultura. Con un po’ d’aiuto potremmo fare molto”.
Il compagno Ramu è l’agricoltore responsabile della zona del Janatana sarkar. Ci accompagna con orgoglio per i campi, dove si coltivano riso, brinjal, gongura, cipolle, kohlrabi. Poi, con altrettanto orgoglio, ci mostra un bacino di irrigazione enorme, ma completamente a secco. Che cos’è? “Questo non ha acqua neppure durante la stagione delle piogge. È stato scavato nel posto sbagliato”, dice con un sorriso smagliante. “Non è nostro, l’ha scavato il Looti sarkar (il governo predatore)”. Ci sono due sistemi paralleli di governo, qui, il Janatana sarkar e il Looti sarkar. Penso a quello che mi ha detto il compagno Venu: vogliono distruggerci, non solo per via dei minerali, ma perché stiamo proponendo al mondo un modello alternativo. Non è ancora un’alternativa, questa idea del Gram swaraj (il gandhiano autogoverno del villaggio) col fucile. C’è troppa fame qui, ci sono troppe malattie. Ma certamente ha creato la possibilità di un’alternativa. Non per tutto il mondo, non per l’Alaska o per New Delhi, forse neanche per tutto il Chhattisgarh, ma per sé. Per il Dandakaranya. È un segreto custodito molto gelosamente. Ha gettato le basi per un’alternativa al suo stesso annientamento. Ha sfidato la storia. Partendo con un enorme svantaggio, ha elaborato un progetto per la sua stessa sopravvivenza. Ha bisogno di aiuto e immaginazione, ha bisogno di medici, insegnanti, agricoltori.
Non ha bisogno di guerra. Ma se non ottiene altro che guerra, è pronto a combattere.
In questi ultimi giorni, incontro donne che lavorano con il Kams, funzionari dei Janatana sarkar, membri del Dandakaranya adivasi kisan mazdoor sangathan (Dakms), famiglie di persone uccise, e gente qualsiasi che cerca solo di tirare avanti in tempi così difficili.
Ho conosciuto tre sorelle – Sukhiari, Sukdai e Sukkali – non giovani, forse sulla quarantina, del distretto di Narayanpur. Sono iscritte al Kams da dodici anni. Gli abitanti dei villaggi si affidano a loro per difendersi dalla polizia. “Gli agenti arrivano in gruppi di due o trecento. Rubano tutto: gioielli, polli, pentole, frecce e archi”, dice Sukkali, “non lasciano neppure un coltello”. La sua casa a Innar è stata bruciata due volte. Sukhiari è stata arrestata ed è rimasta sette mesi in carcere a Jagdalpur. “Una volta hanno portato via tutti gli uomini del villaggio, dicendo che erano tutti naxaliti”. Sukhiari li ha seguiti con le donne e i bambini. Hanno circondato la stazione di polizia e hanno rifiutato di andarsene finché gli uomini non fossero stati liberati. “Quando portano via qualcuno”, dice Sudkai, “devi correre immediatamente a riprendertelo. Prima che scrivano il rapporto. Una volta che hanno scritto su quel libro, diventa tutto molto difficile”.
Sukhiari, che da bambina è stata rapita e costretta a sposarsi con un uomo anziano (poi è scappata ed è andata a vivere con sua sorella), oggi organizza raduni di massa, parla nelle assemblee. Gli uomini dipendono dalla sua protezione. Le ho chiesto cosa significasse il Partito per lei: “Naxalvaad è la nostra famiglia”. Quando veniamo a sapere che c’è stato un attacco, è come se avessero fatto del male alla nostra famiglia”, dice Sukhiari. Le ho chiesto se sapesse chi era Mao. Ha sorriso timidamente: “Era un leader. Noi lavoriamo per realizzare i suoi ideali”.
Ho conosciuto la compagna Somari Gawde. Vent’anni, e ha già scontato due anni di carcere a Jagdalpur. Era nel villaggio di Innar l’8 gennaio del 2007, il giorno in cui 740 poliziotti lo hanno circondato convinti che lì si trovasse la compagna Niti (c’era, ma se n’era andata prima che arrivassero). Invece hanno trovato la milizia del villaggio, di cui Somari faceva parte. La polizia ha aperto il fuoco all’alba. Ha ucciso due ragazzi. Poi, ne ha catturati altri tre, compresa Somari. Due sono stati legati e uccisi con un colpo di arma da fuoco. Somari è stata picchiata e ridotta in fin di vita. La polizia ha preso un trattore con rimorchio e ha caricato i corpi dei due ragazzi. Somari è stata fatta sedere vicino ai cadaveri, e portata a Narayanpur.
Ho conosciuto Chamri, madre del compagno Dilip che è stato ucciso il 6 luglio del 2009. Mi racconta che, dopo averlo ucciso, la polizia ha legato il figlio a un palo, come un animale, e se l’è portato via (i poliziotti devono consegnare il corpo della vittima per riscuotere la ricompensa, prima che arrivi qualcun altro a soffiargliela). Chamri gli è corsa dietro fino alla stazione di polizia. Quando sono arrivati, il corpo del ragazzo non aveva più uno straccio addosso. Lungo il tragitto, racconta Chamri, i poliziotti hanno parcheggiato il cadavere per la strada e si sono fermati in un dhaba a prendere tè e biscotti (senza neppure pagare). Immaginatevi per un attimo questa madre che segue il cadavere del figlio attraverso la foresta e si ferma a distanza ad aspettare che i suoi assassini abbiano finito il loro tè. Non le hanno permesso di riavere il corpo del figlio perché potesse dargli una degna sepoltura. Le hanno solo lasciato gettare un pugno di terra nella fossa in cui è stato sepolto con gli altri morti quel giorno. Chamri dice che vuole vendetta. Sangue contro sangue.
Ho conosciuto i membri del Marskola janatana sarkar, che amministra sei villaggi. Mi hanno descritto un raid della polizia: arrivano di notte, trecento, quattrocento, a volte anche un migliaio di uomini. Circondano il villaggio e aspettano in silenzio. All’alba, catturano le prime persone che escono dal villaggio e le usano come scudi umani, per farsi indicare i punti dove sono state messe le trappole (la foresta è piena di trappole, vere e false). Una volta entrati nel villaggio, gli uomini della polizia saccheggiano e rubano e bruciano case. Arrivano con i cani. I cani catturano chi tenta la fuga. Rincorrono galline e maiali, che la polizia uccide e si porta via. Con la polizia arrivano gli Spo. Sono quelli che sanno dove la gente nasconde soldi e oggetti preziosi. Arrestano le persone e prima di rilasciarle li rapinano. Si portano sempre dietro qualche divisa naxalita in più, in caso di bisogno. Sono pagati per uccidere naxaliti, e a volte se li fabbricano. Gli abitanti dei villaggi hanno troppa paura per restare a casa Nell’apparente tranquillità di questa foresta, la vita sembra ormai completamente militarizzata. Andare al mercato è un’operazione militare. I mercati sono pieni di informatori, che la polizia attira dai villaggi con la promessa dei soldi. Gli uomini non possono più andare al mercato. Le donne ci vanno, ma sono sorvegliate a vista. Se comprano anche una sola cosa in più, la polizia le accusa di averla comprata per i naxaliti. Le farmacie hanno ricevuto ordine di non vendere farmaci a nessuno, se non in piccolissime quantità. Le razioni a prezzo ridotto del Sistema di distribuzione pubblica –zucchero, riso, cherosene – sono immagazzinate dentro o vicino alle stazioni di polizia, cosa che spesso rende impossibile acquistarle. L’articolo 2 della convenzione delle Nazioni unite per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, lo definisce così:
“Ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; [o] il trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro”.
Affogarli come topi
Alla fine, sembra che tutto questo camminare abbia avuto la meglio su di me. Sono stanca. Kamla mi porta una pentola di acqua calda. Mi lavo dietro un albero, al buio. Salto la cena e m’infilo nel mio sacco a pelo per dormire. Il compagno Raju mi annuncia che dobbiamo muoverci. Succede spesso, naturalmente, ma stasera è dura. Ci eravamo appena accampati in una radura quando abbiamo sentito i colpi dell’artiglieria in lontananza. Siamo centoquattro. Ancora una volta, in fila nella notte. I grilli. Il profumo di qualcosa che sembra lavanda. Devono essere le undici passate quando arriviamo nel posto in cui passeremo la notte. Una sporgenza rocciosa. In riga. Appello. Qualcuno accende la radio. La Bbc dice che c’è stato un attacco a un campo degli Eastern frontier rifles a Lalgarh, nel Bengala occidentale. Sessanta maoisti in motocicletta. Quattordici poliziotti uccisi. Dieci dispersi. Armi rubate. Si leva un mormorio di soddisfazione.
Stanno intervistando il leader maoista Kishenji. Quando fermerete le violenze e parteciperete ai colloqui di pace? Kishenji: Quando sarà sospesa l’operazione Green hunt. In qualsiasi momento. Parteciperemo ai colloqui. Domanda successiva: ora è buio, avete messo le mine terrestri e stanno per arrivare rinforzi governativi, attaccherete anche loro? Kishenji: sì, certo, altrimenti la mia gente mi picchia. Risate tra i ranghi. Sukhdev, l’uomo delle rettifiche, spiega: “Dicono sempre mine terrestri. Noi non usiamo mine terrestri. Usiamo gli Ied, ordigni esplosivi artigianali”.
Un’altra suite di lusso nell’albergo a mille stelle. Sto male. Comincia a piovere. Qualche risatina. Kamla mi copre con un jhilli. Mi serve altro? La mattina dopo il numero dei morti a Lalgarh è salito a 21, dieci i dispersi. Il compagno Raju è premuroso, stamattina. Non ci muoviamo prima di sera.
Una sera, sono tutti accalcati intorno a una luce, come falene. È il piccolo computer del compagno Sukhdev, alimentato da un pannello solare, su cui stanno guardando Mother India, un programma tv sui crimini irrisolti. Le sagome dei fucili risaltano in controluce sullo sfondo scuro del cielo. Kamla non sembra interessata. Le chiedo se le piace guardare i film. “No, sorella. Solo i video delle imboscate”. Più tardi chiedo al compagno Sukhdev di quei video. Senza battere ciglio, lui me ne mostra uno.
Comincia con alcune immagini del Dandakaranya, fiumi, cascate, il primo piano del ramo spoglio di un albero, un cuculo che canta. Poi, all’improvviso, un compagno innesca uno Ied e lo nasconde sotto le foglie secche. Una carovana di motociclette salta per aria. Ci sono corpi mutilati e moto in fiamme. Vengono subito prese le armi. Tre poliziotti, ancora sotto shock per l’esplosione, sono stati legati.
Chi sta facendo le riprese? Chi sta dirigendo le operazioni? Chi sta rassicurando i poliziotti catturati che saranno rilasciati se si arrendono? (Sono stati effettivamente rilasciati. Ne avrò la conferma più tardi). Conosco quella voce gentile e rassicurante. È il compagno Venu.
“È l’imboscata di Kudur”, dice il compagno Sukhdev. Ha anche un archivio di video di villaggi bruciati, dichiarazioni di testimoni oculari e parenti dei morti. Sul muro annerito di una casa incendiata c’è la scritta “Nati per uccidere!”. Ci sono le immagini di un bambino al quale sono state mozzate le dita per inaugurare l’esordio dell’operazione Green hunt nel Bastar (c’è perfino un’intervista televisiva a me. Il mio studio. I miei libri. Strano).
Di notte, la radio dà notizia di un altro attacco naxalita. Questa volta a Jamui, nel Bihar. Dice che 125 maoisti hanno attaccato un villaggio e ucciso per rappresaglia dieci persone della tribù kora, colpevoli di aver dato informazioni alla polizia che hanno portato alla morte di sei loro compagni. Naturalmente, noi sappiamo che quello che dicono i mezzi d’informazione può essere o non essere vero. Ma se lo è, è ingiustificabile. I compagni Raju e Sukhdev sembrano decisamente a disagio. Le notizie che stanno arrivando dallo Jarkhand e dal Bihar sono preoccupanti. La macabra decapitazione del poliziotto Francis Induvar è ancora viva nel ricordo di tutti. Dimostra con quanta facilità la disciplina della lotta armata possa trasformarsi in atti irresponsabili di violenza criminale, o in orribili guerre identitarie tra caste e comunità e gruppi religiosi. Istituzionalizzando l’ingiustizia, lo stato indiano ha trasformato questo paese in una polveriera carica di enormi tensioni. Il governo si sbaglia di grosso se pensa di mettere fine alla violenza usando “omicidi mirati” per “decapitare” il Cpi(maoista). Al contrario, la violenza si diffonderà e intensificherà, e il governo non avrà nessun interlocutore con cui avviare un dialogo.
Durante gli ultimi giorni della mia permanenza, girovaghiamo per la bellissima valle verde dell’Indravati. Mentre camminiamo lungo il fianco di una collina, vediamo un’altra fila di persone che avanza nella stessa direzione, ma sulla riva opposta del fiume. Scopro che stanno andando a un’assemblea contro la diga nel villaggio di Kundur. Sono allo scoperto e disarmati. Una manifestazione locale per difendere la valle. Passo dall’altra parte e mi unisco a loro. La diga di Bodhghat sommergerà l’intera zona in cui abbiamo camminato per giorni. Tutta quella parte di foresta, tutta quella storia, tutte quelle vicende umane. Più di cento villaggi. Sarebbe questo il piano, dunque? Affogare gli abitanti come topi, perché l’acciaieria integrata di Lohandiguda e la miniera di bauxite e la raffineria di alluminio sulle montagne di Keshkal possano prendersi il fiume? All’assemblea, dopo aver camminato chilometri per arrivare qui, i locali dicono le stesse cose che sentiamo da anni. Affogheremo, ma non ci muoviamo! Sono entusiasti che qualcuno sia venuto qui da New Delhi per loro. Gli dico che New Delhi è una città crudele, che di loro non sa e non vuole sapere niente.
Poche settimane prima di venire nel Dandakaranya, sono stata a Gujarat. La diga di Sardar Sarovar ha raggiunto più o meno l’altezza prevista. E quasi tutto quello che il Narmada badao andolano (Nba) aveva previsto che sarebbe successo, è successo. Le persone sfollate non sono state risarcite, ma questo era scontato. I canali non sono stati costruiti. Non ci sono soldi. Così, le acque del Narmada vengono convogliate nel letto asciutto del fiume Sabarmati (dove era già stata costruita una diga tanto tempo fa).
Gran parte dell’acqua viene inghiottita dalle città e dalle grandi industrie. Gli effetti a valle – l’ingresso di acqua salata in un estuario senza un fiume – stanno diventando impossibili da arginare. C’è stato un tempo in cui credere che le grandi dighe fossero i “templi dell’India moderna” poteva essere un errore di valutazione, ma comprensibile. Oggi però, dopo tutto quello che è successo, e con tutto quello che sappiamo, bisogna dire chiaramente che le grandi dighe sono un crimine contro l’umanità. Il progetto per la diga di Bodhghat è stato archiviato nel 1984, dopo le proteste degli abitanti del posto. Chi lo fermerà ora? Chi impedirà la posa della prima pietra? Chi impedirà che rubino l’Indravati? Qualcuno deve farlo.
Lal salaam, compagni
L’ultima sera ci siamo accampati ai piedi della ripida collina che avremmo scalato la mattina dopo, per raggiungere la strada dove una motocicletta doveva venire a prendermi. La foresta è cambiata dalla prima volta che ci sono entrata. I chiaraunji, i kapok, gli alberi di mango hanno cominciato a fiorire. Gli abitanti di Kudur ci hanno fatto arrivare una grande pentola di pesce appena pescato. E una lista per me: 71 tipi di frutta, verdure, lenticchie e insetti che ricavano dalla foresta e coltivano nei campi, insieme al prezzo di mercato. È solo una lista. Ma è anche una mappa del loro mondo. Arriva la posta della giungla. Due biscotti per me. Una poesia e un fiore essiccato dalla compagna Narmada. Una bella lettera da Maase (chi è veramente? Lo saprò mai?).
Il compagno Sukhdev chiede se può scaricare sul suo computer la musica del mio iPod. Ascoltiamo una registrazione di Iqbal Bano che canta Hum dekhenge (Vedremo quel giorno) di Faiz Ahmad Faiz, durante il famoso concerto di Lahore, negli anni più duri della repressione del generale Zia.
Quando gli eretici e gli offesi siederanno in alto
Tutte le corone saranno strappate via, tutti i troni rovesciati
Le cinquantamila persone del pubblico intonano un coro di sfida: Inqilab zindabad! Inqilab zindabad! (Lunga vita alla rivoluzione!). Dopo tutti questi anni, quel coro riecheggia in questa foresta. Strane le alleanze che si creano. Il ministro degli interni lancia velate minacce a quelli che “commettono l’errore di offrire sostegno intellettuale e materiale ai maoisti”. Vale anche per la condivisione di musica?
All’alba dico addio al compagno Madhav e a Joori, al piccolo Mangtu e a tutti gli altri. Il compagno Chandu è andato a organizzare le moto e verrà con me fino alla strada principale. Il compagno Raju non viene (la salita sarebbe un supplizio per le sue ginocchia). La compagna Niti (super-ricercata), il compagno Sukhdev, Kamla e cinque altri mi accompagneranno in cima alla collina. Appena ci incamminiamo, Niti e Sukhdev tolgono la sicura ai loro Ak, come niente fosse ma contemporaneamente. È la prima volta che glielo vedo fare. Ci stiamo avvicinando al “confine”.
“Sai cosa fare se dovessero spararci addosso?”, mi chiede distrattamente Sukhdev, come se fosse la cosa più normale del mondo.
“Sì”, rispondo io. “Dichiaro immediatamente uno sciopero della fame a oltranza”.
Si siede su una roccia e ride. Saliamo per una mezz’ora. Arrivati sotto il livello della strada, ci sediamo all’interno di una piccola nicchia rocciosa, completamente nascosti, come se stessimo preparando un’imboscata. Tendiamo l’orecchio al rumore delle motociclette. Quando arriva, il saluto dev’essere rapido. Lal salaam, compagni.
Quando mi volto indietro, sono ancora lì. Salutano con la mano. Un gruppetto sparuto. Gente che vive con i suoi sogni, mentre il resto del mondo vive con i suoi incubi. Ogni sera ripenso a quel viaggio. A quel cielo di notte, a quei sentieri nella foresta. Vedo i calcagni della compagna Kamla nei suoi sandali logori illuminati dalla luce della mia torcia elettrica. So che si starà spostando. Starà marciando, non solo per se stessa, ma per tenere viva la speranza per tutti noi.
Traduzione di Diana Corsini.
Internazionale, numero 851, 18 giugno 2010
Arundhati Roy è una scrittrice indiana. Ha vinto il Booker prize con Il dio delle piccole cose (Guanda) nel 1997. Il suo ultimo libro è In marcia con i ribelli (Guanda 2012). Ha scritto questo reportage per il settimanale indiano Outlook.
Questo reportage, pubblicato dal settimanale Outlook nel marzo del 2010, ha sollevato molte polemiche sulla stampa indiana. La scrittrice è stata accusata di romanticismo e faziosità. Qualcuno si è spinto oltre le critiche chiedendo di processare Roy per sostegno alla lotta armata. Un gruppo di intellettuali e attivisti, tra cui Vandana Shiva, ha firmato un appello a sostegno della scrittrice. “Che si condividano o meno le sue idee, un paese che si professa democratico deve permetterne la libera espressione”, si legge nell’appello. Altri, pur dichiarandosi in totale disaccordo con Roy, le hanno riconosciuto il merito di aver arricchito il dibattito sui maoisti e sull’operazione Green hunt lanciata dal governo.