New York, minigonna a scuola? Ti punisce la “polizia dell’abbigliamento”
24 Settembre 2014 - di Claudia Montanari
ROMA – La questione in realtà non è nuova: l’abbigliamento tra le mura scolastiche. Una volta ci pensavano professori e bidelli a mantenere l’ordine (e il decoro), quest’anno però gli studenti della scuola superiore Tottenville di Staten Island, a New York, dovranno fare i conti con la “fashion police”, la polizia dell’abbigliamento: all’entrata a scuola, 15 addetti del personale scolastico vigileranno e controlleranno i ragazzi e il loro abbigliamento per assicurare il decoro scolastico.
Si legge sul Corriere della Sera:
“Ricerche dimostrano che uno stile di abbigliamento sobrio aiuta gli studenti alla disciplina, diminuisce la violenza e allontana il bullismo”. Quindi no ai leggings, alle minigonne e alle magliette senza maniche. Dimenticatevi felpe con il cappuccio, jeans attillati o troppo bassi e pantaloncini corti. Proibiti cappelli, sciarpe sopra la testa e persino la catena che lega il portafogli ai pantaloni. “A scuola ci si veste con uno stile sobrio”.
Il nuovo regolamento della scuola di New York già fa molto discutere:
“Il preside Joseph Scarmato ha deciso per la linea dura, nessuna deroga. E le ultime due settimane si sono trasformate in un braccio di ferro. Alcune ragazze hanno deciso di continuare a vestirsi come volevano e di ribellarsi. Risultato: nella seconda settimana di scuola, 200 sono state mandate in punizione. E visto che per molte non era la prima volta, i genitori hanno dovuto portare un ricambio alle figlie o loro avrebbero indossato vestiti della scuola.
“Sembra di essere alle elementari”, ha raccontato una giovane a un giornale locale che era riuscita ad eludere i controlli. Il corpo scolastico è spaccato. Un gruppo di genitori incita le ragazze alla ribellione, altri credono che le giovani si vestano in modo eccessivo. “Alcune di loro indossano dei pantaloncini così corti che esce fuori il sedere. Sembra che stiano facendo pratica per andare a lavorare in uno strip club”, ha spiegato Sasha German al New York Post. Ma c’è chi pensa di fare causa alla scuola.”