Paola Ferrari

Paola Ferrari e la battaglia con Twitter: vincerà?

6 Luglio 2012 - di Claudia Montanari

ROMA – Forse addirittura Don Chisciotte si arrenderebbe all’evidenza. Non lo fa invece Paola Ferrari, deliberatamente contro Twitter. Un privato cittadino, insomma, contro una piattaforma internet con 150 milioni di utenti. Sembrerebbe dura ma, a parte la naturale solidarietà per chi osa sfidare l’impossibile (e tralasciando che possa servire solo a farsi pubblicità), la questione posta dalla conduttrice offesa, benché liquidata con sarcasmo, esiste eccome, ed attiene alla responsabilità del social network sui contenuti volgari, diffamatori, razzisti ecc… postati da singoli protetti dall’anonimato. E’ facile, è diventato quasi un cult di mezza estate, prendere in giro la giornalista che incita alla censura: la insultavano ieri, per l’aspetto fisico, l’abbronzatura, i ritocchi, l’approccio sexy ma fatalmente agè, la subissano di improperi oggi che attenta alla libertà di tweet.

Tu non fai niente per rimuovere gli insulti, io ti denuncio! Apriti cielo, i followers scatenati rivaleggiano con i comici di professione e (con l’hashtag #QuerelaconPaola) il passaparola social si trasforma in un attimo in un plebiscito di condanna e un piccolo talent show per i dileggiatori più caustici. Effettivamente il pretesto è troppo invitante: come denunciare il muro per gli insulti di cui è ricoperto. Un bel problema anche per gli orfani di McLuhan: “il mezzo è il messaggio” vale anche per il muro? Anche per la bacheca Facebook, anche per il profilo Twitter? Prima di tornare alla “irresponsabilità della macchina”, non si può non riferire dei più fantasiosi. Tipo ”I gatti hanno querelato Instagram”, “Querelo Meucci e Bell perché ricevo scherzi telefonici”, “Bella idea quella di Paola Ferrari. Io pensavo di querelare la Basilicata, i mancini, e Facebook”.

Ma, in punta di diritto, a prescindere dall’enormità della sproporzione (“Pare che, scoperto che Twitter è americano, Paola Ferrari abbia dichiarato direttamente guerra agli Stati Uniti #QuerelaconPaola”), qualche problema c’è, la normativa sul web è in continua evoluzione e tentativi legislativi di costringere i social network al rispetto della privacy oltre che alla rimozione dei messaggi apertamente contundenti, non mancano. Non si tratta di querelare l’Azienda dei trasporti se alla fermata dell’autobus qualcuno scrive insulti con il pennarello. Il decreto 70/2003 (che recepisce le indicazioni comunitarie) solleva i service provider dalla responsabilità, “a patto che lo stesso notiziato di un contenuto illecito non provveda a rimuoverlo prontamente ” (Andrea Rossetti, prof. di Informatica alla Statale di Milano). Tuttavia succede che sempre più spesso i giudici coinvolgono nella responsabilità la piattaforma digitale.

La stessa enfasi per mettere all’indice la luminosa “censora” dagli occhi blu, gli stessi giudizi sprezzanti e il disinvolto utilizzo di categorie come la libertà di espressione, non si sono viste nel caso degli insulti via Facebook del poliziotto accusato di pestaggio mortale all’indirizzo della madre di Aldrovcandi. I toni con cui sono stati commentati i deliri su Facebook di chi considera un atto morale abortire feti gay(sic)  erano di altro segno. Il fatto è che qui in Europa non vale il primo emendamento che negli Usa disciplina la totale libertà di espressione.

Nel primo caso è dovuto intervenire il ministero dell’Interno per far cancellare l’odioso post di insulti alla madre di Aldrovandi (cioè un atto disciplinare interno). Nel secondo caso l’unica soluzione percorribile sembra sia quella di portare alla sbarra chi diffonde messaggi che istigano all’odio e abusano della credulità. In pratica la macchina, il server provider, il social network, difesi dalla neutralità di supporto tecnologico, sono assolti. La difesa della dignità della comunità virtuale è affidata a se stessa: isolare i “troll” (quelli che postano solo insulti), non rispondergli, non dargli importanza. Per parafrasare Altan, la macchina sembra dichiarare solennemente che non conosce il mandante delle cazzate che dice.

 

Di  Warsamé Dini Casali