Testimonianza di una Aquilana non terremotata
8 Aprile 2012 - di marina_cavallo
L’AQUILA – Sono un’aquilana non terremotata. Una specie di ossimoro, oggi, ma dalla spiegazione semplice. Il 6 aprile io non c’ero. Non è solo che non vivevo più in città già da molti anni, la mia casa non era lì, il mio lavoro era altrove, perché però lì c’erano i miei genitori, mia sorella, le loro case, un quantitativo di zii e cugini da famiglie di una volta e tutti erano sfollati e qualcuno purtroppo già risucchiato dai crolli.
La questione cruciale è che io non ho sentito la scossa. Essere dentro quella scossa o non esserci è lo spartiacque invalicabile oggi tra me e mia sorella, mia madre, i mei amici, tutti gli altri. Non lo strazio, la pena, i disagi. Non la sofferenza e lo sconcerto. Che semmai uniscono e rendono complici, o quanto meno comportano da parte di chi non c’era, ma che capisce, ha visto, ha perso comunque un pezzo del suo cuore, dei suoi affetti, dei suoi ricordi, un atteggiamento quanto meno di partecipazione discreta. È la scossa che determina la distanza.
Una delle ragioni per cui decisi molto presto che non avrei passato la mia vita all’Aquila era legata alla frequenza con la quale avvenivano piccoli terremoti: scosse di intensità non elevata ma sufficienti a svegliarti, farti rivestire e uscire di casa. Non che avvenissero sempre di notte, ma io me le ricordo soprattutto di sera tarda e comunque dopo che ci eravamo messi a letto. Mi terrorizzavano. Quelle di giorno riuscivo a dimenticarle, almeno un po’, quelle di notte no. Perché sei inerme, più fragile, meno rapido a difenderti. Perché ti colgono non pronto, mentre ti stai abbandonando.
Non ho mai pensato che potessero costituire un pericolo reale però, l’ipotesi di una distruzione effettiva della città non mi era mai venuto in mente. Sì, la maestra c’aveva sempre raccontato di questa faccenda che da noi il Carnevale entra più tardi rispetto al resto d’Italia, perché c’era stato un terremoto che aveva distrutto la città nel 1703, ma, appunto, ti immagini, da bambina, che oggi il pericolo non ci sia più, che oggi tutto sia più solido. Faccio parte dell’ultima generazione considerata del boom economico. Negli anni ’70 ancora si credeva nel progresso lineare. Certo, la maestra ripeteva anche che è per questo che all’Aquila non si potevano costruire palazzi più alti di cinque piani. Che strano che ne vedessi di sei o di sette. L’unico reale terrore era costituito da un grosso pino di fronte la finestra della mia camera, che ero convinta che con una forte scossa mi sarebbe venuto addosso. Forse perché con il vento si muoveva così forte che pensavo potesse venirne sradicato.
Ora quella casa non c’è più e il pino sta ancora lì. Naturalmente sul concetto di radici, radicamento, basi, fondamenta ci sarebbe molto da riflettere e da dire, oggi. Oggi che tutta quella zona della città è stata divelta dalla scossa del 6 aprile ad eccezione di quel pino. Era costruita su terra di riporto. Hanno spiegato. Cioè io sono cresciuta su di una polveriera e non lo sapevo. Meno male che, ormai trasferitami, i miei si erano spostati dal lato opposto della città, per un insieme di circostanze e anche dubitando che stessero facendo la cosa giusta.
Con gli anni passati altrove il ricordo fisico delle scosse notturne è poi lentamente passato, come il calco di un fossile su di una pietra via via levigata dall’acqua. Ormai i tremori dei vetri per il vento, i motori, la metropolitana, non mi facevano più sussultare con quell’istante di morsa nel cuore. Accadevano e basta e io non m’impaurivo con loro.
Il 6 aprile 2009 la scossa non l’ho sentita, nemmeno a Roma, dove pure è stata forte, perché poi più tardi avrei trovato dvd e oggetti per terra, caduti dalla libreria. Non mi sono neanche svegliata.
Venivo da un viaggio all’estero breve, intenso e bellissimo, il mio primo in Nord Africa con successiva tappa a Catania.
Avevo presieduto ad un festival teatrale dell’Università di Agadir e poi portato una classe di scuola media, al limite del ‘banditismo’, a recitare in un altro festival teatrale, stavolta per scuole medie, organizzato dalle Orsoline, dove le piccole belve avevano avuto un successo clamoroso con un testo scritto da me e loro e ne erano stati completamente placati.
E per ben quarantotto ore. Potenza educativa del teatro. Il tutto, Marocco e Sicilia, in una settimana. E mi trascinavo una signora influenza con tosse e mal di gola che comunque mi stava prostrando, anche se non mi aveva fermato. Insomma, il medico, al mio rientro venerdì 3, m’aveva drogato con un antibiotico stranissimo e così, tra medicine, fusi orari e le belvette trasformate in star, quella notte dormii come un sasso. O un macigno.
Ricordo anche che ad Agadir, il lunedì o martedì di quella settimana, mia madre, spaventata, al telefono, m’aveva detto che lo sciame si stava intensificando e che io le dissi, tanto per tranquillizzarla: ‘non ti preoccupare, QUANDO TI TOCCA NON TI AVVERTE PRIMA. Se ci fosse da preoccuparsi ve lo direbbero’. Una stronzata così, alla Bertolaso. Perché non sai cosa dire e non ci vuoi pensare, perché pensi che al massimo cade l’albero sulla finestra di Via Diaz, perché sei ad Agadir e del resto non sai che altro fare. Perché il calco delle scosse era ormai levigato, perché ho pensato bene di omologarmi all’ignavia collettiva e dolosa che ha lasciato che studenti universitari morissero dentro le loro stanze, perché non avevavo un’alternativa dove potersi rifugiare.
La verità è che il destino invece molto spesso avverte. Dirò di più: nella mia esperienza di vita comincio a rendermi conto che statisticamente siano più le volte che dia segnali che quelle che non lo fa. Se solo stessimo più attenti e più in dialogo con le cose, il mondo, l’universo. La vita.
Abbiamo sentito il telefonino solo quando mia sorella è passata dal cercare di svegliare me, invano, al ‘chiamo il compagno, uno dei due risponderà prima o poi’.I cellulari li teniamo in un’altra stanza, il mio sempre senza suoneria. Mi irrita il suono. Marco siccome ha una madre anziana lo lascia invece sempre a tutto volume. Ma è pur sempre nell’altra stanza. Mia sorella, povera, non aveva speranza di parlare direttamente e subito con me. Quando finalmente ci riesce erano già le 5 e 45 circa.
Mentre Marco si alza e corre a rispondere, lancia un innocuo ‘ah! Mi sa che ha fatto il terremoto stanotte’. En passant. Senza neanche darci troppo peso.
È stato un attimo. Di meno. Un lampo. Ho capito.
Marco non ha esperienza di terremoti, s’è svegliato pensando che fossi io che mi stessi grattando molto energicamente, s’era alzato, s’era accorto che il lampadario ballava, ha pensato che forse era lui che sognava, s’è rimesso a dormire. Sapeva dello sciame sismico, ma appunto, lo spartiacque è chirurgico. Se non ti sei mai trovato dentro delle scosse, non stai in allerta, non associ, non ti preoccupi.
Mentre mi catapulto di là e lui ha già risposto, attendendo che mi passi mia sorella mentre intanto ci parla lui, afferro il mio cellulare e lo trovo pieno di chiamate non risposte. E poi un sms, un’amica ma che non sento mai, che dice: ‘come stanno i tuoi’.
Sono chiara. Dove state, come state, veniamo, venite, non sappiamo, la casa, papà: ‘no, secondo me sta bene’, mamma: ‘mah, secondo me è compromessa’, e poi strane notizie: ‘Marco (un altro, mio cugino) è arrivato di corsa e ha salvato zia e zio, che gli era caduto il tetto in testa. Adesso stanno da lui, ma zia è stata al Pronto Soccorso e s’è ferita alla testa’. Marco? Il tetto? Ma di che sta parlando mia madre? Casa di zia a Piazza Rocca di Corno? ‘Valentina (mia cugina), abbiamo temuto, ma sta bene, invece non abbiamo notizie di zia Pia. Luisa e Leonida si sono salvati per un pelo’.
Mi suona tutto inverosimile. O quanto meno mi sembra che sia io che non sto capendo bene gli eventi. Mio cugino Marco sta a Roma anche lui. Se avesse salvato lui i suoi genitori, vorrebbe dire che ha sentito la scossa a Roma, si è immediatamente messo in macchina, è arrivato all’Aquila in mezz’ora ed già rientrato. Sono le 6. Com’è possibile? No, mamma sta parlando della casa che Marco ha all’Aquila, del Pronto Soccorso dell’Aquila. E sul fatto che casa di zia è crollata, no, è che mia madre esagera sempre. Ma a che ora è successo tutto ‘sto casino? Le tre e mezzo?
In qualche maniera minimizzo, normalizzo la notizia. Continuo a renderla più leggera.
Ma perché non venite subito, volete che veniamo a prendervi? No, hanno chiuso l’autostrada. Ecco! Vedi? Parlando di mio cugino si riferiva all’Aquila, come farebbe sennò ad essere andato e tornato da Roma. Gli zii si sono spaventati e ha preferito portarli in un altro posto.
Perché altri posti all’aquila in questo momento ci sono. Mica è stata distrutta!
Mio cugino invece aveva fatto proprio, così, in realtà, appena sentita la scossa, mentre io dormivo sognando l’Africa da me appena lambita, si era immediatamente messo in macchina e l’aveva fatti uscire lui, dalla loro casa, i suoi genitori. Perché il tetto era venuto giù e il portone s’era bloccato. Poi aveva tentato di dare una mano ai vicini a trovare la loro bambina che mancava all’appello nella casa accanto. Non l’avrebbero trovata, o meglio, non viva. Quindi per non far accorgere della disgrazia la madre li aveva trascinati via, autostrada già chiusa, passando per la Salaria. Mia zia è stata la prima terremotata soccorsa ad un Pronto Soccorso romano, dove ovviamente le hanno dato la precedenza assoluta.
E tutto ciò era già avvenuto alle 5.45. Ma che ora è? Marco (il mio), ma perché non m’hai svegliato? ‘Ma che ne so, pensavo che ero io che stavo sognando, che eri tu che ti grattavi’.
Accendiamo la tv, le immagini nazionali sono sulla città e la voce di Giampaolo Arduini, mio glorioso collega ai tempi altrettanto gloriosi di Radio L’Aquila, dice ‘per carità, non abbandonateci in questo momento’. La riconosco immediatamente, la sua voce. Eppoi c’è tanto di didascalia con il suo nome. Ma perché parla in tono così grave? Ma non sarà mica successo un disastro?
Continuo a minimizzare, i miei da sotto la Coop al Torrione, che è uno spazio abbastamza largo dove si sono radunati in tanti, non sono chiari su quello che è successo al centro. Mia madre in realtà sospetta, mio padre ha provato ad avventurarsi per la salita dello Stadio, ma la polvere e il buio l’hanno spaventato ed è tornato indietro. Hanno freddo, non sanno che fare. Ipotizziamo insieme soluzioni al telefono. Ma a Roma non vogliono venire.
Si comincia a parlare di morti, della Casa dello Studente. Ma dove caspita sta ‘sta casa dello studente ad Aq? Guardo le immagini, realizzo, ma è via XX settembre! Dove praticamente lavorava mio padre quando io ero piccola. Ma lì accanto abita un altro mio zio (non la sorella, questa volta il fratello di mia madre). Ma perché mamma non li ha nominati e ha nominato solo Valentina? Li chiamo di corsa. Sono a Roseto, per via delle scosse erano andati a passare il fine settimana nella loro casa piccina piccina al mare. Sono ancora lì e non si sa se mai rientreranno. Va bene, loro stanno bene, chiamo gli altri. Voce sconvolta: ‘siamo a casa di Marco’, non oso chiedere in quale città. Se poi risponde Roma allora vuol dire che la città è veramente andata.
O gesù. Ci sono morti, soprattutto ragazzi. Mio Dio. Almeno cinque. Dirò a Marco: ‘mi sa che sono di più, almeno venti, temo’.
Saranno 309, anche mia zia di Fossa, ma non quella zia Pia che invece era finita in ospedale ad Avezzano, ma stava bene. ‘Almeno venti’: la seconda grande stronzata, dopo quella detta a mia madre che se c’era da preoccuparsi gliel’avrebbero detto.
Anche Agadir è stata rasa al suolo da un terremoto in anni recenti. Quando li ho avvisati, i miei nuovi amici arabi, sono stati i più solidali perché sanno. Avevo raccontato loro che ero dell’Aquila, ma non la conoscevano e mi avevano comunque associato a Roma, dove vivevo e lavoravo. Una volta capito che quella città di cui parlavano i telegiornali era la stessa dove io ero nata e che gli avevo menzionato, hanno avuto parole veramente solidali.
Così, come nelle mie fobie infantili, la scossa terribile è arrivata di notte ed è rimasta nella pelle dei miei concittadini e nelle cose, come uno spartiacque invalicabile tra me e loro, tra loro e chi non sa, tra la città e il resto del paese che non conosce terremoti, tra tutti noi che pur se informati non siamo riusciti e non riusciamo di fatto tutt’oggi ancora a immaginare che cosa sia stato veramente il 6 aprile 2009, così come non riusciamo a immaginare una città capoluogo che non c’è più, come dimostra lo stupore di ogni visitatore (e dico ogni), che arrivato per la prima volta, convinto di conoscere la situazione perché vista in TV, dopo una breve passeggiata esclama: ma io non immaginavo…’.
di Giorgina Cantalini
da abruzzoweb