La vedova e la mamma del killer: "Ecco come ho perdonato un massacro"

La vedova e la mamma del killer: “Ecco come ho perdonato un massacro”

23 Maggio 2014 - di Claudia Montanari

GROSSETO – La vedova di un poliziotto ucciso durante un posto di blocco e la mamma del ragazzo che uccise il poliziotto. Una storia di amicizia, amore e perdono quella tra Claudia e Irene, due donne che, per motivi estremamente diversi, sono accomunate da uno straziante dolore. Si può perdonare il killer che ha ucciso tuo marito? È questa la domanda chiave che si pone Alessandro Dell’Orto su Libero Quotidiano, che racconta una storia dai tratti drammatici ma dal lieto fine. Una amicizia nata dal massacro, che ha permesso a due donne di diventare più forti:

“C’è una riflessione, in questa meravigliosa storia di animi e anime, che più delle altre ti entra dentro e ti rivolta. Ti emoziona, struggendoti e mettendoti a nudo, commuovendoti: «L’unica cosa è far nascere dal male il bene». Rileggetela e poi rileggetela e rileggetela ancora abbandonandovi a voi stessi e alla vostra coscienza, sarà un’esperienza forte come forte è ciò che ci sta dietro”

Claudia Francardi e Irene Sisi sono l’esempio lampante che sì, il perdono può esserci. Anche in situazioni drammatiche. E loro hanno fatto di più perché insieme non hanno solo ricostruito una vita e messo in piedi un’amicizia, ma hanno anche creato un progetto. Si chiama “No alla vendetta” ed è un’associazione che ha l’obiettivo di sostenere percorsi di riconciliazione. Perché la riconciliazione può esserci. Scrive Alessandro Dell’Orto:

Claudia, 45 anni, è la vedova dell’appuntato scelto Antonio Santarelli, aggredito a Pitigliano (Grosseto) il 25 aprile 2011 durante un posto di blocco effettuato vicino a un rave party e morto dopo più di un anno di coma. Irene, 39 anni, è la mamma di Matteo Gorelli, il ragazzo (allora unico maggiorenne del gruppo) che colpì il militare alla testa con un bastone di legno e che è stato condannato inizialmente all’ergastolo e in appello a vent’anni. Si sono conosciute, si sono trovate e poi ritrovate e ora eccole qui a dimostrarci come due dolori così intensi e diversi possano trasformarsi in un’unica energia positiva, di come la vergogna per essere la mamma di un’assassino e la rabbia che vorrebbe sfociare in vendetta possano annullarsi sgretolate da una profonda amicizia”

Una triste vicende di dolore per Claudia, che in un anno straziante ha visto andare via per sempre suo marito, e per Irene, di fatto mamma di un ragazzo che sarà sempre il “killer di Antonio”:

“C’è voluto un po’ di tempo, ovvio. Per metabolizzare, pensare, capire. Nei tredici mesi in cui Antonio Santarelli è stato in coma, la moglie era corrosa dalla rabbia, soffriva. Ma aveva già qualcosa dentro che le diceva di andare oltre e quando la chiamavano in tv per raccontarsi lanciava messaggi a Matteo e alla sua famiglia. «Volevo incontrare quel ragazzo – spiega ora – lo volevo conoscere». Irene, insieme con Francois, il padre di Matteo, le scrisse una lettera. «Decisi di farlo – ha racconta poche settimane fa – perché mi sentivo responsabile anche io di quello che aveva fatto mio figlio, volevo andare da Claudia anche se allo stesso tempo, temevo di essere invadente»”

Una lettera che fece immediatamente capire a Claudia di voler conoscere Irene davvero, nel profondo. Si legge su Libero Quotidiano:

“«In quella lettera Irene mi chiese perdono per il gesto del figlio. Si sentiva responsabile per non aver ascoltato i suoi silenzi. Decisi di incontrarla. La prima volta fu insieme ai nostri avvocati, dietro loro consiglio. Fu un po’ imbarazzante, ma in quell’occasione mi sembrò che la cosa migliore da fare fosse abbracciarsi. Le dissi che non la stavo giudicando. Sono convinta che il bene e il male possono appartenere a ogni essere umano. Poi venne a trovare mio marito quando si trovava in clinica. Si rese conto subito della gravità delle sue condizioni e che non si sarebbe risvegliato. Ebbe in quell’occasione piena consapevolezza del dramma». Antonio Santarelli morì l’11 maggio 2012. Poi il processo e, sette mesi dopo, la sentenza di primo grado. «Mi sentii male dopo l’annuncio di un ergastolo che non mi avrebbe restituito Antonio. Matteo mi sorrise. In un secondo momento mi spiegò che era per tranquillizzarmi e dirmi “va bene così”»”

Il perdono. Il perdono. È questa la parola chiave per riuscire a capire nel profondo la storia. Claudia riuscì ad incontrare anche Matteo:

“Emozione. Agitazione. Forza. «È iniziato così il percorso di riconciliazione. Non parlo volutamente di perdono, perché quello lo dà Dio e io non mi sento superiore a Matteo. È un cammino che si fa insieme, lungo una strada che forse durerà tutta la vita e non sa dove porterà. Matteo (ora è nella comunità di don Antonio Mazzi a Milano e si è iscritto all’università n.d.r.) attraverso il mio dolore e i miei racconti sta conoscendo Antonio e se potrà avere un futuro migliore lo dovrà anche a mio marito». Claudia e Irene ora sono insieme. Sempre più spesso. Due destini e due vite incrociate, aggrappate a un’amiciza forte e a un progetto comune. «Un giorno tornando da Milano con Irene- racconta ancora Claudia – abbiamo detto “perché non facciamo qualcosa insieme”? Matteo ora è agli arresti domiciliari e non può partecipare attivamente, ma io e lei possiamo fare qualcosa di pratico. Da qui l’idea dell’associazione, che vuole diffondere la cultura della riconciliazione, appunto». Riconciliazione per oscurare la vendetta. «Arrabbiarsi non serve a niente,non fa bene a me e la vendetta non serve a nessuno. Non nego di avere avuto fasi di rabbia,ma non mi piacevo. Non si sta bene e la persona scomparsa non torna. L’unica cosa è far nascere dal male il bene»”

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