Vinci il tumore, rischi a lavoro: donne discriminate al rientro più di uomini
27 Febbraio 2015 - di Claudia Montanari
ROMA – Rientrare a lavoro a seguito di una malattia? Se sei donna sei più discriminata degli uomini. I risultati di un rapporto sul welfare di Luiss, Valore D, Susan Komen e Università cattolica sono chiari quanto allarmanti: le donne che rientrano a lavoro dopo una malattia anche grave come un tumore vengono penalizzate più degli uomini. Il 57% delle donne intervistate ha dichiarato di aver subito “demansionamento, mobbing e mancato avanzamento di carriera” spiega il rapporto.
Riccardo Masetti, presidente italiano della Susan komen Italia, associazione che si occupa di combattere il cancro al seno e direttore del centro di senologia integrato del policlinico Gemelli di Roma, spiega:
“Le donne si ammalano di tumore più degli uomini. Sebbene in Italia esistano tutele che devono garantire i diritti di chi si ammala spesso si finiscono per creare delle penalizzazione ai danni delle lavoratrici”.
Masetti, insieme a Valore D, Luiss Business School e Università cattolica, ha promosso il primo studio sulle norme e il reinserimento lavorativo delle donne colpite da tumore. Il progetto, chiamato International Lab for Women’s Health in the Workplace (laboratorio internazionale per la salute della donna sul luogo di lavoro) è partito un anno fa e ha l’obiettivo di “creare proposte per rendere più efficaci queste tutele”.
LA RICERCA: Presentata alla Luiss di Roma, la ricerca è stata condotta attraverso questionari a 100 pazienti e a 32 aziende di grandi dimensioni. Masetti spiega:
“Le tutele sono poco conosciute e si fa fatica a farle applicare; solo il 28% delle donne intervistate sapevano di poter passare a un periodo di part-time provvisorio, il 36% che avevano diritto a un’aspettativa non retribuita, il 29% che avevano diritto a passare a mansioni diverse e il 33% che avevano la possibilità di fare visite mediche senza utilizzare giorni di ferie o permessi”.
Ancora meno, hanno usufruito di queste possibilità: rispettivamente il 7% nei primi due casi, il 10% hanno scelto volontariamente rimanendo all’interno dell’azienda di occuparsi di altro, il 20% che i giorni per le terapie andavano conteggiati a parte. Quasi la metà delle intervistate ha dichiarato di essere stata penalizzata al rientro al lavoro o durante la malattia: il 57% dichiara di aver subito demansionamento, mobbing e mancato avanzamento di carriera.
Una parte della ricerca invece ha ascoltato le aziende, 32 associate a Valore D associazione impegnata a promuovere il talento femminile. “Il posto di lavoro è il luogo dove passiamo la maggior parte del nostro tempo. Sempre di più le aziende rappresentano una gamba del sistema di welfare quando una persona si ammala – spiega Barbara Saba, vicepresidente dell’associazione e vicedirettrice della fondazione Johnson & Johnson -. Welfare vuol dire anche conciliazione delle responsabilità lavorative con quelle famigliari. Sappiamo che le aziende del campione hanno più di 250 dipendenti e rappresentano una fotografia settoriale ma Valore D si pone l’obiettivo di far conoscere le best practice”. E tra queste aziende (che rappresentano in Italia la stragrande minoranza, sotto l’1% delle imprese totali), nazionali e internazionali, le buone pratiche sono rappresentate da: prevenzione con programmi di screening sanitari e visite periodiche fornite dalle aziende (nel 67% dei casi) corsi di formazione sulle tutele legali nell’83% e sulla malattia nell’80%. Solo il 42% ha politiche attive di reinserimento, come passaggio al part-time o reinserimento graduale. Nel 75% dei casi è offerto un supporto psicologico. Il ’Lab’ ha anche elaborato un indice per valutare le tutele nel loro insieme che i partner sperano si possa applicare anche alle aziende del settore pubblico ad alta presenza di donne.
Lo studio ha anche evidenziato come non manchino in Italia leggi al passo con i paesi europei più avanzati ma spesso manca la giusta applicazione. Per Alessandra Servidori, Consigliera nazionale di parità intervenuta al panel di esperti – tra cui erano presenti Linda Douglass consulente dell’amministrazione Obama per la riforma sanitaria e Luisa Todini, presidente di Poste – un ruolo importante lo possono avere le organizzazioni sindacali: “Bisogna capire se si possono mettere in atto sistemi di integrazione contrattuale di tipo obbligatorio in cui una parte del salario viene dirottato in un fondo che in caso di assenza obbligata dal lavoro possa integrare il reddito. Il sistema della bilateralità – creato da imprese e sindacati, ndr – per le piccole aziende attraverso i fondi bilaterali è stato adottato in Emilia Romagna con successo”.