Al cinema “The Lady”, la storia di Aung San Suu Kyi
23 Marzo 2012 - di marina_cavallo
Che meraviglia, che piacere e che sollievo andare al cinema, sedersi al buio e per due ore entrare a far parte del mondo, capire domandarsi emozionarsi, sentirsi parte del tempo in cui viviamo e della storia, uscirne più ricchi, più consapevoli, grati.
Lo so: non è una recensione convenzionale quella che inizia dicendo vi prego, andate a vedere questo film. È senz’altro anche questo un effetto della condizione in cui lascia The Lady, il film che Luc Besson ha girato dopo quattro anni di lavoro sulla biografia di Aung San Suu Kyi. Ed è anche il suo valore principale, mi pare. «Stavo lavorando a un altro progetto, ho letto questa sceneggiatura e ho lasciato tutto. Volevo fare subito questo film, dovevo farlo. Oggi, proprio nel tempo che oggi viviamo, c’è bisogno di un film che racconta dei veri eroi».
E così niente più Nikita né Leon per un momento, niente più meravigliose favole di gnomi adorati dai bambini, spettacolari immersioni nei fondali marini, sparatorie e killer seriali da fare invidia a Hollywood. No, ora sedetevi e ascoltate una storia che va in scena proprio qui proprio ora, la storia di una donna che per 25 anni ha tenuto testa da sola a una dittatura militare folle e sanguinaria come sempre le dittature militari sono, che ha sfidato e sfida i plotoni di esecuzione e il ricatto degli affetti, la fame e la solitudine, che non ha paura, che ancora oggi è qui, è lì, fra un mese si vota in Birmania e ancora una volta questa donna silenziosa, timida, educatissima, gentile sarà lì a sfidare l’arroganza e l’orrore, l’arbitrio e la morte. Il 1° aprile, sarà lì.
I birmani hanno talmente paura a pronunciare il suo nome che la chiamano The Lady, Besson si emoziona quando lo racconta e per una volta non c’è critica né commento da cinefilo che possa irritarlo: troppo melò, troppo didascalico, troppo virato sulla storia d’amore, troppo agiografico, il film. Sorride, Besson, e risponde solo: «È una storia vera, e la storia è questa. Non abbiamo citato molte fonti perché sarebbe stato pericoloso per loro, ringrazio di cuore tutti quelli che mi hanno aiutato nell’impresa. Sono felice, orgoglioso, umanamente fiero di aver fatto questo film». Ecco: felice, orgoglioso di aver portato sullo schermo una donna che abita questo mondo adesso, che è lì, lontanissima e ora più vicina, a dire “usate la vostra libertà per promuovere la nostra”. Fatelo, provateci. La Good films, che esordisce nella distribuzione con The Lady, per esempio prova così: una campagna mondiale su Facebook, “send a message”, per ristabilire lo stato di diritto in Birmania. Per parlare a Suu Kyi: ci siamo, eccoci, lo stiamo facendo.
Michelle Yeoh (La tigre e il dragone, Memorie di una geisha) è protagonista di una interpretazione misuratissima, mai retorica, fisicamente simbiotica. Certamente la sua migliore. David Thewlis (L’assedio, Il grande Lebowski, Harry Potter) è il marito inglese, il docente di Oxford protagonista della campagna per il Nobel, padre dei due figli, l’amore, il consigliere, il compagno di lotta. Coprotagonista del film, la storia essendo narrata dal suo punto di vista e da quello di Alex e Kim, i due ragazzi: una storia familiare che si intreccia alla lotta per l’indipendenza di un Paese, l’amore coniugale e l’assenza, le vite parallele, la distanza, la rabbia dei figli adolescenti verso la madre che sceglie di non tornare, la madre che non torna. Lei impara a fare campagna elettorale sulle montagne, lui impara a stirare, lei mangia una ciotola di riso in auto, lui cucina una colla di riso per il pranzo. Lui va a ritirare il premio Nobel, la sedia vuota, il discorso del figlio, la sala che applaude in piedi, lei ascolta da una piccola radio sola nella grande casa, reclusa.
La scena in cui Suu attraversa il plotone di esecuzione pronto a spararle guardando in viso — giaguaro con occhi di cerbiatto — il militare che le punta la pistola è quella di cui anche Besson vuole parlare ancora, a proiezione finita. «È semplicemente andata così», continua a ripetere, bisognava solo raccontarlo. Suu Kyi non è mai tornata in Inghilterra, non l’avrebbero lasciata rientrare in Birmania. Non ha visto morire il marito, non ha visto crescere i figli. È nel suo Paese, continua a lottare nel nome del padre: il generale Aung San, protagonista della lotta per la liberazione del Paese negli anni ‘40, assassinato quando lei aveva due anni.
Con sei orchidee bianche nei capelli proprio come quella che lui le metteva dietro l’orecchio da bambina continua a ripetere le parole del padre: «Aspettiamoci il meglio mentre ci prepariamo al peggio». Aspettiamoci il meglio e stiamo in guardia. Andate a vedere questo film.
di Concita De Gregorio
Ecco il trailer del film.