“Ladri di biciclette”, il capolavoro del cinema neorealista da rivedere
8 Marzo 2013 - di Claudia Montanari
ROMA – In un’Italia sempre più afflitta e confusa dalla crisi economica, “Ladri di biciclette” può tornare probabilmente oggi ad acquistare un significato intenso, personale e non solo cinematografico; questo film, che è stato ritenuto il più grande di tutti i tempi dalla rivista Sight & Sound, ha saputo raccontare con folgorante intelligenza e forza le difficoltà della gente comune nel secondo dopoguerra. Tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Bartolini, adattato al grande schermo da Cesare Zavattini e girato con un’ampia partecipazione di attori non professionisti, “Ladri di biciclette” è ambientato a Roma e narra la storia di Antonio( Lamberto Maggiorani), un disoccupato che trova lavoro come attacchino comunale; per lavorare deve però possedere una bicicletta e la sua è impegnata al monte di pietà. Riuscita a riscattarla impegnando delle lenzuola, gli viene rubata proprio il primo giorno di lavoro; accompagnato dal figlio Bruno( Enzo Staiola), Antonio inizierà allora una ricerca straziante della bicicletta, che lo porterà in giro per tutta la città e si concluderà con una doppia sconfitta per l’uomo. Vincitore di numerosi premi, fra cui l’Oscar al miglior film straniero nel 1950, “Ladri di biciclette” è diventato quel capolavoro che è soprattutto grazie alla meravigliosa ed intensa regia del grande Vittorio De Sica, che dovette realizzare il film con mezzi propri, visto che nessuno voleva produrglielo dopo l’insuccesso commerciale di “Sciuscià”; un’opera tragica, ricca di un’umanità vera e dolente, che è riuscita a trasformare, agli occhi degli spettatori di tutto il mondo, i tristi anni del secondo dopoguerra italiano in arte pura.