Gabriele Ferzetti, morto l’attore: era suocero di Favino
2 Dicembre 2015 - di Silvia_Di_Pasquale
ROMA – E’ morto l’attore italiano Gabriele Ferzetti. Era nato a Roma il 17 marzo 1925. Tra le sue interpretazioni più famose, La provinciale di Mario Soldati, Le amiche e L’avventura di Michelangelo Antonioni, La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini, A ciascuno il suo (1967) di Elio Petri. Ferzetti era il padre di Anna Ferzetti, anche lei attrice, avendo recitato nella serie televisiva “Una mamma imperfetta”, ed è inoltre la compagna dell’attore Pierfrancesco Favino, con il quale ha avuto due figlie.
E’ stato un giovane seduttore, un quarantenne problematico e dubbioso, un affascinante signore sulla scena e sullo schermo, uno uomo appartato e schietto, un raffinato osservatore dei tempi che cambiano e un attore sottile, dedito sempre alla sottrazione e al perfezionismo. E’ stato Gabriele Ferzetti e nel suo caso, per fortuna, nessuno ha mai potuto mettere in campo paragoni. Era semplicemente Ferzetti, l’interprete a cui il nostro teatro e il nostro cinema migliore devono molto.
Romano, di buona famiglia ed educazione impeccabile, ben presto divorata dalla passione per la recitazione. Frequenta l’accademia d’arte drammatica Silvio d’Amico e già brucia le tappe, approdando al mondo del cinema che ha appena 17 anni: nel 1942, attor giovane a fianco di Dorsi Duranti ne “La contessa di Castiglione” di Flavio Calzavara. A guerra finita si costruisce con maniacale professionalità una spina dorsale da uomo di teatro e Luchino Visconti lo sceglie, nel 1948, per lo scespiriano “Come vi piace”.
Il suo primo ruolo da protagonista in teatro è del 1951 con Olga Villi in “Sogno ad occhi aperti” di Rice; la prima grande affermazione sullo schermo la deve a Mario Soldati che lo mette insieme a Gina Lollobrigida ne “La provinciale” del 1953, grazie al quale gli spetterà il ruolo da prim’attore ne “Le avventure di Giacomo Casanova” diretto da Steno e purtroppo per molti anni massacrato dalla censura. Due anni dopo, sullo schermo, un incontro folgorante con Michelangelo Antonioni che tra “Le amiche” e “L’avventura” ne fa l’emblema di una condizione maschile sospesa nell’incertezza, vero controcanto alla passione arrembante e un po’ “machista” del maschio italiano ai tempi della rinascita economica.
Gabriele Ferzetti è ben diverso: bello, elegante, sobrio, affascinante, sta però sempre un po’ in disparte, non riempie lo schermo come Gassman o Sordi, ritaglia i suoi ruoli lavorando di cesello ed esprimendo la parte segreta dell’uomo contemporaneo. Lo capisce bene uno dei nostri registi più sensibili e sommessi come Antonio Pietrangeli in “Nata di marzo”, ispira a Florestano Vancini uno dei suoi ruoli più belli in “La lunga notte del ’43”, gli darà gloria Elio Petri in “A ciascuno il suo”. Nel frattempo la carriera di Gabriele Ferzetti corre a ritmi impossibili con una frequentazione ossessiva dei set (alla fine saranno più di 100 i suoi film) che si alterna con frequenza alla passione per il teatro e ad avventure oltre confine come nel bellissimo “Tre camere a Manhattan” di Marcel Carné (1965).
La duttilità d’interprete lo vede pienamente a suo agio in drammoni storici, commedie scanzonate, film d’avventura e drammi passionali. Non manca neppure l’appuntamento con i fermenti e gli scandali del ’68, partecipando a “Grazie zia” di Salvatore Samperi, ma sarà Sergio Leone a dargli gloria assoluta disegnando con lui il memorabile affarista sofferente e cinico di “C’era una volta il West”. In teatro, specie grazie alla consuetudine con Mario Missiroli, firma pagine importanti recitando con grandi colleghe come Lea Padovani o Anna Proclemer. E questa passione lo accompagnerà sempre, fino al meritatissimo premio Ubu ricevuto per “Danza di morte” nella sua piena maturità. Le sue incursioni nel cinema e nel teatro sono talmente tante e così varie (ha partecipato anche a un’avventura di 007, “Al servizio segreto di Sua Maestà”) che perfino oggi riesce difficile darne conto.
C’era in lui una voglia di mettersi alla prova, un piacere sottile di non piacersi mai abbastanza che lo spingeva a superare ogni volta i confini. E c’era anche una timidezza segreta che spesso veniva scambiata per distanza e alterigia che lo spingeva a tenersi lontano dalle luci della ribalta, dai paparazzi, dal successo facile. Piace ricordarlo ancora nel “Portiere di notte” di Liliana Cavani (un monumento a quella sobrietà interpretativa che resta il suo tratto ineguagliato), nel “Quartetto Basileus” di Fabio Carpi, nell'”Otello” di Oliver Parker e, di recente, in “Io sono l’amore” di Luca Guadagnino.
In quell’occasione il successo internazionale del film fece scoprire a molti la classe ineguagliabile di quel gentiluomo che, come il miglior vino, migliorava invecchiando. Se si pensa a Gabriele Ferzetti oggi lo si vede ovunque: lo si ricorda al cinema, è vivo in teatro, è come un amico che conosciamo da sempre grazie alle ripetute incursioni televisive. Eppure ci lascia con il sospetto di non averlo mai veramente conosciuto, di averlo applaudito anche troppo poco, sempre più ammirato che amato. E allora è giusto, almeno un’ultima volta, lasciare proprio a lui il centro della scena: buon viaggio Gabriele.