In amor vince chi fugge. Lo diceva anche Catullo

In amor vince chi fugge. Lo diceva anche Catullo

23 Gennaio 2015 - di Daniela Lauria

ROMA – Ve lo avrà insegnato anche la nonna che in amor vince chi fugge. Lo diceva pure Catullo, il poeta latino dell’amore, vissuto a Roma nel primo secolo a.C. “Mostrati indifferente come lei – recita uno dei suoi carmina più noti – a non seguire i suoi passi se ti fugge”. Gaio Valerio Catullo nacque nell’84 a.C. in quella che, svariati secoli dopo, non a caso, diverrà la città dell’amore: Verona, la città di Romeo e Giulietta.

Giunto a Roma Catullo, a differenza di personaggi come Cicerone e Sallustio, si tenne alla larga dalla politica della Repubblica nel momento in cui si imponeva come dominatrice del Mediterraneo, aderendo a una nuova corrente letteraria: il neoterismo o poetae novi, come furono definiti da Cicerone in senso dispregiativo. Il poeta novus costituiva il rovesciamento dell’ideale aristocratico di civis romanus, tutto foro e politica.

L’evento che segnò profondamente la vita e la poetica catulliana fu l’incontro con la donna che nel suo canzoniere prende il nome di Lesbia, in omaggio alla poetessa greca Saffo, vissuta nel VII secolo a.C. In realtà si chiamava Clodia, di una decina d’anni più vecchia di lui, sorella del tribuno Publio Clodio nonché moglie e in seguito vedova di Quinto Cecilio Metello.

Clodia-Lesbia però non ricambiò mai pienamente l’amore di Catullo, pur cedendo alle sue lusinghe. Non era affatto una femina simplex (cioè senza implicazioni) come le classiche matrone romane le cui uniche ragioni di vita erano il governo della casa e l’educazione della prole. Clodia era una femina complex (con parecchie implicazioni) una sorta di proto-femminista, emancipata e fin troppo libertina.

Questo amore tormentato trasformò Catullo nel più struggente, il più disperato e il più lirico dei cantori latini: alla sua Lesbia dedicò in versi tutto il suo desiderio, nel senso letterale del termine (da desum, cioè quel che manca). Nel carme 8, che qui vi proproniamo, stanco dei suoi continui tradimenti, Catullo apre finalmente gli occhi e si decide a dimenticarla. Cerca di auto-convincersi della decisione presa ma al tempo stesso sente ancora la passione bruciare nell’anima.

Miser Catulle, carme VIII (Catullo, trad. Salvatore Quasimodo)

Povero Catullo, basta con le follie,
ciò ch’è finito, convinciti, è finito.
Un tempo brillarono per te limpidi giorni,
quando correvi dove voleva la ragazza
da te amata come nessuna sarà mai amata.
E là quante dolcezze nei giochi d’amore
che tu volevi allora e lei non rifiutava.
Davvero brillarono per te limpidi giorni!
Ma ora non vuole più, e tu cerca di vincerti
e mostrati indifferente come lei
e non seguire i suoi passi se ti fugge
e non tormentarti più, ma, ostinato, resisti.
Addio fanciulla, ormai Catullo è deciso,
non tornerà a cercarti, non ti vuole per forza.
Ma tu soffrirai, se non sei desiderata.
Ti pentirai, perfida! Che vita sarà la tua?
Chi ora verrà da te? E per chi sarai bella?
E chi amerai? E di chi si dirà che tu sei?
Chi bacerai? A chi morderai le labbra?
Ma tu, Catullo, ostinato, resisti.

Miser Catulle, carme VIII (originale)

Miser Catulle, desinas ineptire,
et quod vides perisse perditum ducas.
fulsere quondam candidi tibi soles,

cum ventitabas quo puella ducebat 
amata nobis quantum amabitur nulla.
ibi illa multa cum iocosa fiebant,
quae tu volebas nec puella nolebat,
fulsere vere candidi tibi soles.
nunc iam illa non vult: tu quoque impotens noli,
nec quae fugit sectare, nec miser vive,
sed obstinata mente perfer, obdura.
vale puella, iam Catullus obdurat,
nec te requiret nec rogabit invitam.
at tu dolebis, cum rogaberis nulla.
scelesta, vae te, quae tibi manet vita?

quis nunc te adibit? cui videberis bella? 
quem nunc amabis? cuius esse diceris? 
quem basiabis? cui labella mordebis? 
at tu, Catulle, destinatus obdura.

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