Un libro per “entrare a casa” dei grandi architetti
1 Maggio 2012 - di marina_cavallo
MILANO – Il libro è “Piccoli incontri con grandi architetti” di Enrico Arosio.
Gli architetti sono famosi e quindi ‘grandi’, ma gli articoli di Arosio, che raccontano i suoi incontri con loro, sono tutt’altro che ‘piccoli’.
Enrico Arosio è ‘inviato speciale’ dell’Espresso e ha una passione particolare per l’architettura. Da qui la sua costanza, negli anni, a dialogare e a scrivere dei maggiori architetti del mondo. Da Renzo Piano a Kurt W. Forster, da Italo Rota a Kazuyo Sejima, da Vittorio Gregotti a Mario Botta.
I colloqui hanno come tema la visione professionale degli intervistati, naturalmente, però il libro non tratta solo di architettura: ad Arosio interessa molto la personalità, l’umanità, dei professionisti che incontra.
Ne escono dei ritratti particolari, preziosi per far conoscere una parte della storia dell’architettura contemporanea anche ai “non addetti ai lavori”.
La scrittura di Arosio è infatti molto brillante ed efficace nel far risaltare la diversa natura dei personaggi scelti.
In tempi come i nostri, così carichi di polemiche e denunce, è insolito e piacevole sentir ragionare di progettualità, creatività e realizzazioni. In poche parole sentire parlare del “bello”: è’ un’iniezione di fiducia oltre che un piacere dell’intelletto.
Vi anticipiamo l’introduzione:
Introduzione di un intruso
Sono un intruso dell’architettura, eppure gli architetti, in linea generale, mi hanno accolto bene. Non tutti, certo, ma è normale.
Che cos’è un intruso? L’intruso è colui che entra senza chiedere il permesso. Qualcuno ricorderà la celebre fotografia del reporter Erich Salomon, quello scatto malandrino al Quai d’Orsay, a Parigi, nel 1931. C’è il primo ministro francese Aristide Briand, circondato da ministri in frac, che si gira verso l’obiettivo additandolo con un moto di sorpresa: «Voilà, le roi des indiscrets!». I colleghi ridono. Del resto era lo stesso Briand a lamentarsi quando Salomon, per qualche motivo, non si faceva vedere: «Che riunione è, senza Salomon? La gente penserà che non rivestiamo alcuna importanza».
Un giornalista tra gli architetti, con una laurea che non è in architettura. Iniziavo male. Invece è finita bene. Venticinque anni di giornalismo all’“Espresso”, a occuparmi di attualità, politica, cultura, e gli ultimi quindici a stretto contatto con questa disciplina e i suoi maestri (e maestrini), è come se mi avessero nobilitato sul campo. Non in trincea, ma sul cantiere. Dove c’è la polvere, tanta polvere, e all’inizio sembra che rimarrà per sempre, che non si riuscirà mai ad asportarla del tutto, e ogni volta, a un certo momento, la polvere sparisce e rimane un grande corpo costruito, con la sua pelle liscia e fresca, e sembra un prodigio.
Questo libro nasce dalla mia ostinazione di intruso, dicevo: di clandestino, di sans papiers. L’architettura l’ho amata fin da ragazzo, e anche da prima, aggirandomi nella casa che un elegante architetto milanese, Vico Magistretti, aveva costruito per i miei genitori nel 1959 (e che mi ricorda la Villa Muller di Adolf Loos a Praga). L’ho respirata tra gli amici di famiglia, esplorata nei viaggi, celebrata sposando un architetto, e ho continuato a frequentarla, a parlarne, a scriverne. A farne un lavoro parallelo accanto alle altre responsabilità dentro il mio giornale.
L’architettura va di rado in prima pagina, o in copertina. Non è con un piano urbanistico o un nuovo museo o un’intervista al progettista di Londra o Barcellona che si accresce la tiratura. Lo sappiamo. Eppure, anche nel giornalismo italiano, con lieve ritardo su quello europeo, dalla fine degli anni Novanta, i temi dell’architettura sono usciti dal network dell’informazione disciplinare, le riviste specializzate, l’editoria di settore, le esperienze universitarie, e sono entrati a far parte dell’informazione generalista. Alcune testate pilota hanno avviato un processo di divulgazione, e mediazione, che ha conquistato una fascia più ampia di lettori. Ed è cominciato innovando il linguaggio: dall’architettese, sviluppatissimo sin dagli anni Settanta, quando quel gergo dominava per ragioni ideologiche e corporative, si è tornati all’italiano. In fondo, bastava poco: è sufficiente leggere “Parole nel vuoto” o “Nonostante tutto” di Loos per rendersi conto che, anche tra architetti, può valere, senza sprofondare nel disonore, il “parla come mangi”; e si era a Vienna intorno al 1910, cent’anni fa. Il problema, allora come oggi, è lo stesso: rendere l’architettura, e l’urbanistica, più friendly. Più amichevole e comprensibile. Anche per evitare di annoiare, e di evocare il lamento della capra filosofica di Adorno in “Minima moralia”: «Sono già sazia, fatemi grazia».
Questa esperienza di mediazione, ironie a parte, è stata una cosa dannatamente seria. E, ad avviso di molti, una cosa utile. Le facoltà continuano a produrre architetti, le riviste a esistere, spuntano come funghi siti e portali Internet, sfruttando le potenzialità audio-video del web. Ma l’informazione generalista si è arricchita. Si è arricchita la cronaca, e la discussione pubblica, non solo intorno ai protagonisti (i progettisti, i committenti), ma intorno al tema città, che è ben più importante. Abbiamo in questi anni raccontato quanto l’architettura incida sulla vita di noi tutti: come processo trasformativo dello spazio urbano; come interprete di nuovi stili di vita; come contributo alla socialità dei cittadini, e all’attrattività culturale che le città devono esprimere nella nuova competizione internazionale. Perché tutti i processi rilevanti di questi anni, dal recupero dei centri storici alla trasformazione delle ex aree industriali, dalla gestione delle periferie residenziali alla costruzione di grandi attrattori iconici con funzione di marketing urbano, dai ghetti etnici alle gated communities, hanno trovato il loro potenziamento sulle pagine dei giornali più autorevoli. A dispetto delle Cassandre che li vogliono in declino o morituri, con una fretta sospetta e forse degna di miglior causa.
Alcune testate, in Italia, sono state protagoniste di questa nuova mediazione tra l’architettura, le trasformazioni urbane e i cittadini. “Il Sole-24 Ore”, “Corriere della Sera”, “la Repubblica”, “L’Espresso”, principalmente. Con la firma sia di docenti sia di giornalisti: a turno, tollerandosi, incrociandosi. Siamo stati, e siamo, in pochi, e ci conosciamo tutti. I direttori dei giornali ci hanno lasciato fare, senza eccedere in riconoscenza, occupati come sono a cavalcare le più eccitanti praterie della politica, dell’economia, della cronaca giudiziaria (direi che stiamo uscendo ora dal ventennio della giudiziaria, un po’ come nel 1930 si usciva dall’Art déco). Ai miei colleghi di minoranza va, in queste righe, un pensiero di simpatia e complicità. Eppure io ho sempre pensato, e questo libro vuole ribadirlo, che l’architettura è, per natura sua, un grande fatto politico.
Perché la città postindustriale è il luogo dei conflitti, della densificazione, degli incroci etnici, ma anche della formazione dei giovani, e dunque del futuro. E perché ripropone il senso originario della polis ateniese. È dai tempi di Pausania, in viaggio per le città greche nel secondo secolo dopo Cristo, che risuona l’ammonizione: dove la città versa in degrado è in degrado l’intera civiltà che l’aveva espressa. «Ammesso che si possa chiamare città», chiosa Pausania di fronte alla decadenza, «un posto senza un municipio, senza un ginnasio, senza un teatro o una piazza del mercato, senza neanche una fonte pubblica in cui scorra l’acqua». Non ho trovato da solo questo passo di diciotto secoli fa che dice tutto, sull’essenza politica dell’architettura; lo devo all’illustre storico e critico Joseph Rykwert (che ho conosciuto tanto tempo fa grazie a “l’Espresso”) nel primo capitolo di un libro formidabile per dottrina e spessore, “La seduzione del luogo” (Einaudi 2003).
Il volume che avete in mano ha, come ossatura, una scelta degli incontri e dei colloqui che ho avuto il privilegio di intrattenere, grosso modo dal 2000 a oggi, in rappresentanza del mio giornale. I miei amati lettori dell’“Espresso” lo sanno: sono sempre incontri fisici, non telefonici, non mediati dall’e-mail o da un social network. Incontri veri, come usa nel giornalismo classico. Incontri avvenuti nelle più varie città europee, da Barcellona a Parigi a Amsterdam a Venezia, con qualche innesto americano. Negli studi degli architetti, o molto spesso sul cantiere dei loro progetti in costruzione, casco in testa, scarpe impolverate, appoggiati a tavolini precari in baracche d’alluminio, sotto lo sguardo rispettoso o distratto degli operai di mezzo mondo; perché non vi è nulla di più transnazionale dei lavoratori di un cantiere complesso. E i cantieri complessi sono quelli che, più sovente, fanno da sfondo a queste storie.
Non vi è pretesa di rappresentatività. Se cercate una beniamina del sistema comunicativo globale come l’anglo-irakena Zaha Hadid, libera volpe in libero pollaio, non la troverete. Omissione voluta di questa esponente tardo futurista che non fa nulla per passare inosservata? No. Non c’è perché un certo articolo che scrissi su di lei non mi è parso abbastanza buono, e di recente non l’ho incrociata. Non ho composto un catalogo di divi, perché ho combattuto, non sempre con successo, la tendenza mediatica ad avvicinare il codice dell’architettura al sistema moda. Né la parola “archistar” ha cittadinanza attiva, nel mio lavoro; e anzi deploro l’abuso di questo termine sgraziato. Sono, semplicemente, i personaggi che ho avuto modo di incontrare in questi anni. Diversi sono andato a cercarli ad hoc, nella prospettiva del libro; altri incontri sono servizi pubblicati da “l’Espresso”; altri ancora sono rielaborazioni di vecchi articoli arricchiti sulla base degli appunti che ogni giornalista serio iper-produce, rispetto al servizio a caldo, limitato da vincoli di misure e di urgenze: è la dannazione del giornale come prodotto industriale, dalla tempistica severa.