Miuccia Prada ed Elsa Schiaparelli, due radical dello chic
23 Marzo 2012 - di asansonetti
NEW YORK – Che ci fanno due italiane in esposizione al Metropolitan Museum di New York? Un’intervista impossibile. Miuccia Prada ed Elsa Schiaparelli: a loro è dedicata la mostra del Costume Institute del Metropolitan Museum of Art (per gli amici “Met”) dal titolo Schiaparelli and Prada: impossible conversation, visitabile dal 10 maggio al 19 agosto. Due donne di moda che hanno dettato lo stile in epoche differenti, ma con un comune denominatore non minimo: hanno proposto una donna libera da condizionamenti maschili, che si veste non per piacere ma per piacersi. Premesso questo, l’accostamento Schiaparelli-Prada ha qualcosa di azzardato, se non impossibile, non solo perché – Elsa nata nel 1890, Miuccia nel 1949 – le due stiliste sono vissute in momenti storici diversi e non si sono mai incrociate. Ma perché fra l’inventrice del rosa shocking (Schiaparelli) e l’ideologa di un fascino pastello (Prada) ci sono distanze non solo cromatiche.
Del resto è stata la stessa Miuccia Prada a sottolineare in fase di presentazione della mostra (patrocinata anche dal comune di Milano) che “le vengono in mente più le differenze che le somiglianze”. Miuccia che ha ammirato l’indipendenza (leggi: cocciutaggine) dei curatori della mostra, Harold Koda e Andrew Bolton, che non hanno tenuto in conto le sue critiche: “Erano concentrati sui tratti comuni, accostando piuma a piuma, etnico con etnico… Ma non hanno considerato il fatto che si stava parlando di epoche differenti, e che la Schiaparelli e io eravamo l’una l’opposto dell’altro. Gliel’ho detto, ma non ho fatto cambiare loro idea”. Spiazzante come al suo solito, Prada si è mostrata critica verso una mostra che le ha fatto l’onore, che prima di lei era stato concesso solo a Yves Saint Laurent, di dedicare una retrospettiva a una persona ancora in vita.
Ora, qualcosa su Prada è trapelato anche al pubblico meno specialistico, non solo perché, da quando è uscito il famoso film in cui Meryl Streep interpreta un personaggio ispirato alla direttrice di Vogue Anna Wintour, anche “Il Diavolo veste Prada”. Ci sono cifre che parlano una lingua inequivocabile: con 6,8 miliardi di dollari di patrimonio, Miuccia Prada è secondo Forbes la 139° persona più ricca al mondo; per la rivista Time è la seconda donna più potente al mondo nella moda; tra i venti magnati della moda e le 300 persone più ricche nelle classifiche di Fortune.
Meno noto ai più è il personaggio di Elsa Schiaparelli, figura ancora di culto negli ambienti della moda a Parigi e a New York, ma quasi del tutto dimenticata in Italia. La Schiaparelli, che mai è arrivata alle vette patrimoniali di Prada, è stata comunque una figura decisiva nella moda degli anni 30. Nata a Roma il 10 settembre 1890, da madre nobile, di una famiglia napoletana imparentata coi Medici, mentre il padre Celestino, direttore della biblioteca dell’Accademia dei Lincei, veniva da una famiglia di intellettuali piemontesi. Il nonno di Elsa era Giovanni Schiaparelli, famoso astronomo; lo zii di Elsa, Ernesto Schiaparelli e Luigi Schiaparelli, erano rispettivamente un archeologo egittologo e un paleografo.
Un misto di genialità e nobiltà nel sangue che la piccola Elsa avrebbe dovuto far implodere in un destino casalingo che era la linea già tracciata per chi nasceva donna nella società dell’epoca. Elsa, tra l’altro, stava venendo su bruttina fra donne belle, come la sorella e la madre, che le ripeteva “sei tanto brutta quanto tua sorella è bella”. Un contesto in cui, quando Elsa ventunenne pubblicò Arethusa, una raccolta di poesie “quasi erotiche” che aveva scritto a 14 anni, il successo del libro (segnalato con articoli di giornale anche all’estero) fu accolto come una sciagura, e la figlia una degenere da internare in un convento svizzero.
Fu la svolta: dopo mesi di “espiazione” fra le monache, e un paio di “no” a matrimoni combinati, Elsa scappò di casa. Fuggì a Londra, dove il teosofo William de Wendt de Kerlor, conte tanto fascinoso quanto spiantato, la impalmò. I novelli sposi schivarono la prima guerra mondiale a Nizza, per poi spostarsi a New York, dove il conte teosofo visse per un po’ sulle spalle dei lavoretti che trovava Elsa. Ma, proprio quando lei partorì la piccola Maria Luisa Yvone Radha (che per fortuna fu sempre chiamata “Gogo”, e fu madre dell’attrice Marisa Berenson) il conte scroccone scappò con Isadora Duncan.
Sola, senza soldi e con una figlia malata, Elsa divorziò dal marito e riparò a Parigi da madame Picabia, moglie di Francis Picabia, pittore e scrittore fra i fondatori del dadaismo. Nella capitale francese la Schiaparelli continuò a respirare l’aria d’avanguardia che aveva “inalato” a New York con amici come Marcel Duchamp e Man Ray. Ma ci mise un po’ di tempo prima di trovare la sua strada. Fu l’incontro con una rifugiata armena a farle accendere la scintilla della moda. Lei la mente, l’armena il braccio, la sua prima creazione fu un trompe l’oeil, un maglione nero con un fiocco bianco cucito come se fosse una sciarpa intorno al collo. Un’idea semplice ma non convenzionale, che Elsa promosse indossandola lei stessa.
Accadde che tutte le sue amiche volevano quel maglione. In poco tempo, la Schiaparelli aprì (casa e) bottega in un appartamentino in Rue de la Paix. Era il 1927. Due anni dopo presentò la prima collezione. Ormai tutti la conoscevano come “Schiap”. Un vulcano di idee.
Iniziò applicando il cubismo ai capi sportivi. Portò il surrealismo in passerella, collaborando con Jean Cocteau e soprattutto con Salvador Dalì. Che insieme a lei inventò cappelli a forma di scarpa e vestiti a forma di lacrima o di aragosta, borse a forma di telefono, vestiti con tasche che sembravano cassetti. Ma la fantasia di “Schiap” non finiva con Dalì: creò una borsa con un tessuto che incorporava ritagli di giornale che parlavano di lei, collane in plexiglas con protagonisti scarafaggi, libellule… aspirine. Stregò Hollywood e vestì le dive dell’epoca: Katherine Hepburn, Greta Garbo, Marlene Dietrich. Fece un profumo la cui boccetta riproduceva la silouette di Mae West.
Ma non fu solo un’eccentrica che stupiva e affascinava le elìtes. Le sue innovazioni cambiarono anche la moda “di massa”. Sdoganò la zip, la cerniera lampo a vista negli abiti, che sostituì definitivamente i poco pratici bottoncini. Trasformò la giacca in un abito femminile da sera. Imbottì le spalline e nel contempo disegnò vestiti dalle linee affusolate: quasi a emancipare la donna dall’esibizione delle proprie curve. Brevettò un colore, una tonalità molto accesa di rosa, il rosa shocking. Capì, fra le prime, che il futuro della moda non sarebbero stati più gli abiti su misura, ma il pret-à-porter. Fu la prima a fare collezioni a tema e a trasformare le sfilate in uno show, per ammaliare i compratori.
Fu un vero ciclone, capace di oscurare Coco Chanel, sua grande rivale, regina incontrastata dello stile dagli anni 20. Come la Schiaparelli, che definiva con disprezzo “quell’artista italiana che fa vestiti”, Chanel vestiva la donna per liberarla dallo sguardo e dall’approvazione dell’uomo: decretò la fine dei corsetti che strizzavano in vita le medames per farle esplodere in petto, lanciò la moda del capello corto, ridisegnò una figura femminile sbarazzina, quasi sportiva. Ma tanto Chanel semplificava, tanto Schiaparelli “complicava”. Alberto Arbasino mezzo secolo più tardi contrapporrà “le invenzioni di Elsa Schiaparelli e Salvador Dalì contro le donnette in serie di Chanel”. Il Time, che nel 1934 dedicò la copertina a “Schiap”, relegò Chanel in seconda fila: “Ha un patrimonio di 15 milioni di dollari nonostante non sia la persona più influente nella moda”. La “più influente”, secondo il Time, era la stilista italiana “una di quelle persone per le quali la parola “genio” era stata usata più spesso”.
Geniale e coraggiosa. Tanto da non temere, all’apice della sua fama, le accuse di flirtare con i bolscevichi. Nel 1936 Vanity Fair accoppiò nelle sue “Interviste impossibili” (che hanno ispirato la mostra del Met) Stalin e Schiaparelli. Ecco un estratto:
Stalin: “Non può proprio lasciare in pace le nostre donne?”
Schiaparelli: “Loro non vogliono essere lasciate in pace…”
Stalin: “Lei non tiene conto degli importanti obiettivi delle donne sovietiche”
Schiaparelli: “Lei non tiene conto della loro naturale vanità”
Nel 1936 la stilista italiana in Russia c’era veramente andata e aveva anche concepito una collezione di moda Soviet-friendly, pensata per la produzione in serie. Rigettata, però, perché “troppo ordinaria”, dai “commissari dello chic”.
Coraggio che “Schiap” dimostrò anche quando arrivarono la seconda guerra mondiale e i nazisti a Parigi. Da una parte c’era Chanel, che rimase all’Hotel Ritz, dopo l’invasione quartier generale delle SS, e sfruttò le leggi razziali per riappriopriarsi di tutte le quote del suo profumo Chanel n.5, per gran parte in mano a una famiglia ebraica. Dall’altra Schiaparelli, che nel 1940, dopo aver trasformato il proprio atelier in roccaforte delle forze Alleate e aver inventato “completi da guerra” – giacche con grandi tasche per fuggire e portarsi tutto via – volò a New York, dove passò gli anni della guerra a fare la volontaria nella Croce Rossa e a raccogliere fondi per gli attivisti antinazisti in Francia.
Finita la guerra, “Schiap” si ritrovò a partire quasi da zero. Ma l’aria era cambiata. Dettava legge il New look di Christian Dior, che, a dispetto del nome, era un ritorno al passato, a una donna di nuovo strizzata in corpetti e guepiere. Dalì disegnò ancora per lei un profumo a forma di sole, Le Roi Soleil; continuò a lavorare con il cinema. Prevalserò però le difficoltà finanziarie della sua casa di moda, che la costrinserò a chiudere bottega nel 1954. Proprio l’anno in cui Chanel, riemersa dal cono d’ombra in cui era precipitata per il suo collaborazionismo coi nazisti, tornò a proporre una sua collezione. Nello stesso anno, a mo’ di testamento spirituale, Schiaparelli pubblicò Shocking life, la sua autobiografia. Nella quale scrisse “i dodici comandamenti per la donna”. Ne riportiamo uno: “Ricordate: il venti per cento delle donne ha un complesso di inferiorità. Il settanta per cento coltiva illusioni”. Aveva 64 anni. Morì 19 primavere dopo, nel 1973.
Nel 1973 Maria Bianchi Prada detta Miuccia era una ventiquattrenne laureata in scienze politiche, iscritta al Pci (fatto che viene molto enfatizzato fuori dall’Italia: oltre confine è difficile capire cosa fosse un partito di massa con il 30% dei voti e quel nome, “comunista”) alla sezione Karl Marx di via degli Orti, impegnata nel movimento studentesco e nelle lotte per i diritti delle donne (con tanto di tessera Udi, Unione donne italiane): molto presa, insomma, dalla Milano engagé di quegli anni. I maligni raccontano che facesse sì volantinaggio, ma vestita Yves Saint-Laurent o Pierre Cardin, mai in jeans ed eskimo. E che abbia “fumato l’erba del marxismo, ma senza aspirare”. Niente faceva sospettare però che nel 1978 Miuccia, dopo aver completato un dottorato, sempre in scienze politiche e aver studiato l’arte del mimo, per 5 anni, al Piccolo Teatro di Giorgio Strehler, rilevasse l’azienda di famiglia.
Pelletteria. I Prada avevano un negozio di pelletteria, che il nonno Mario con il fratello Martino inaugurò nel 1913 nella Galleria Vittorio Emanuele. Le borse, le valigie, i bauli da viaggio fatti a mano dei Fratelli Prada erano molto richieste dall’alta società milanese. Nel 1919 divennero i fornitori ufficiali di casa Savoia. Ma il negozio era off-limits per le donne di famiglia. Mario Prada, ha raccontato Miuccia, era convinto che il posto di una donna era la casa. Però alla fine degli anni 50 fu proprio una donna, la figlia di Mario e madre di Miuccia, Luisa Prada, a prendere le redini del business.
Non si sa cosa ne sarebbe stato degli affari di Miuccia se non avesse conosciuto suo marito, l’imprenditore aretino Patrizio Bertelli. Uomo che portò una certa cultura del rischio a una donna cresciuta con una rigida educazione cattolica poi emancipatasi attraverso una militanza comunista e femminista. Dicono spesso della coppia: Miuccia è la mente, la creativa, Patrizio è il braccio, che traduce le idee della moglie in finanza. Anche così un negozio che fatturava 400 mila dollari alla fine degli anni 70 è diventato un marchio che nel giugno 2011 ha fruttato 2,1 miliardi di dollari solo dal collocamento delle azioni alla borsa di Hong Kong.
Il 1985 fu la prima data significativa per il marchio Prada. Miuccia inventò una linea di borse di un nero lucido, senza etichetta, fatte con il nylon dei paracadute. Andarono a ruba. Però ci mise tre anni a farsi convincere dal marito a evolversi in stilista e a presentare in passerella un’intera collezione. E passò ancora un po’ di tempo perché Prada riuscisse a ottenere la piena consacrazione, che avvenne intorno alla metà degli anni 90. Cosa fece la fortuna di Prada?
Nei primi tempi – a proposito delle sue collezioni – si parlò di minimalismo, di minimal chic. Dopo l’orgia di colori degli anni 80, Prada riaffacciò in passerella il bianco, il nero, le tonalità pastello, in particolare il grigio e il marrone. Se il decennio precedente aveva proposto una donna sfacciatamente super-sexy o guerriera in carriera, con tailleur come armature con spalline imbottite prese in prestito dalle divise di football, Prada ridisegnò una femminilità sfuggente, sorniona, che affascinava accennando, mai urlando la propria sessualità. Il suo modello di riferimento dichiarato era il personaggio, griffato Yves Saint-Laurent, che Catherine Deneuve interpretò nel film di Buñuel Bella di giorno, la storia di una giovane donna di buona famiglia che, insospettabile, si prostituiva.
Nella doppia vita di Bella di giorno c’è tutta l’ambiguità su cui ha giocato Prada. Una donna “cerebrale ma impetuosa”, che odia essere sexy a tutti i costi, ma proprio per questo risulta oltraggiosamente sexy. Tradotto in capi di abbigliamento, Miuccia rende l’ambiguità dando un tono convenzionale a tutto quello che veste dalla vita in su (classici dolcevita, giacche militari che nascondono il seno) mentre è estremamente licenziosa dalla vita in giù. La gonna, uno dei punti di forza del marchio, diventa il punto esclamativo che non ti aspetti: in lamè, lustrini, false pitonature, piume di pavone, pelli esotiche, pizzi trasparenti. Perché “la metà inferiore di un corpo femminile è quella tutta dedicata alla maternità e al sesso”, ha spiegato Miuccia. E’ quella parte in cui, riprendendo uno slogan femminista, una donna può affermare “io sono mia”.
Questo è sicuramente un punto di contatto fra Elsa Schiaparelli e Miuccia Prada più forte delle differenze: la donna indipendente. Ma c’è dell’altro. Se la stilista milanese è stata definita “post-modernista”, non è stato solo per il suo mecenatismo, il suo collezionare opere d’arte e promuovere artisti. E’ stato per le sue trovate spiazzanti, con le quali si è smarcata dall’etichetta iniziale di minimal chic, per evolversi, tramite azzardati accostamenti ed esperimenti con i materiali, in uno stile codificato come Ugly Chic. Gli azzardi della signora Prada sono stati tanti, ma, dovendo sintetizzare l’Ugly chic in un’immagine, pensate a quella foto di Kate Moss al festival di Glastonbury: stivali sporchi di fango, pinta di birra in bicchiere di carta, fidanzato sessodroga&rock’nroll Pete Doherty al fianco.
Il concetto di ugly chic, intraducibile in italiano (“brutta eleganza”? “Chic sgradevole”?) è ben reso invece dal francese jolie laide. E’ quel fascino del brutto, che spiega come Maria Callas e in tempi più recenti Amy Winehouse irradiassero un carisma tali da dare ai loro volti da strega uno splendore che faceva sfigurare al confronto la bellezza di un volto “perfettino”.
L’ugly chic, in Prada, è il divertimento di fissare i canoni dell’impeccabilità e poi tradirli, pervertirli, sovvertirli. Per questo Prada è considerata “una delle stiliste più influenti al mondo, oggi: perché il misterioso codice Prada è così difficile da copiare. Anche perché lei cambia la password ogni stagione”
Lo scrive Judith Thurman in un lungo articolo sul New Yorker, dove la giornalista-scrittrice riesce nella non facile impresa di trovare i tratti comuni in Elsa Schiaparelli e Miuccia Prada. Così diverse, ma così sovversive nella loro idea di donna che si ribella al proprio destino di subalternità in un man’s, man’s, man’s world, in reazione alla loro educazione cattolica e tradizionale. Così lontane, ma interpreti del proprio tempo, Elsa la surrealista e Miuccia la post-modernista. In definitiva: due radical chic, ma non nel senso del rivoluzionario da salotto che è stato dato in italiano alla definizione coniata da Tom Wolfe. Sono due rivoluzionarie del salotto. Non due donne radical che sono chic, ma due donne che hanno proposto un chic che è radical, ovvero un’eleganza sovversiva.