Diabete, l’aceto aiuta ad abbassare la glicemia
1 Marzo 2019 - di Claudia Montanari
ROMA – Diabete e picchi di glicemia sono strettamente collegati e non vanno assolutamente sottovalutati. In caso di diabete, l’alimentazione è molto importante e i medici consigliano di assumere cibi con un basso indice glicemico. A tal proposito, uno studio dell’Università di Seul, in Corea del Sud, ha dimostrato che usare l’aceto, anche in chi segue un’alimentazione ricca di grassi, riduce gli effetti negativi sulle cellule beta del pancreas, cioè quelle che secernono insulina quando i livelli di glucosio nel sangue aumentano.
Questo effetto dell’aceto fa pensare ad un effetto preventivo nei confronti del diabete, dal momento che le cellule che producono insulina sono meno esposte alle conseguenze e ai rischi di un’alimentazione con molti grassi.
Il merito è dell’acido acetico. Ancora non è del tutto chiaro come agisca, ma si ipotizza che rallenti lo svuotamento dello stomaco inibendo l’attività degli enzimi presenti nell’intestino tenue, limitando la digestione dell’amido e l’assorbimento del glucosio, ma anche aumentando la ritenzione dello stesso glucosio da parte del tessuto muscolare.
Una sola controindicazione: nei casi di gastrite o di reflusso gastro esofageo l’aceto va preso in quantità molto moderate, data la sua acidità. In tutti gli altri casi, via libera.
Sempre in riferimento alle cellule del pancreas, un nuovo esperimento pubblicato sulla rivista Nature dai ricercatori dell’Università svizzera di Ginevra sembra aver fatto passi avanti nella lotta ai picchi glicemici: le cellule pancreatiche possono essere trasformate in “fabbriche di insulina” che sostituiscono le cellule colpite dal diabete. Le cellule del pancreas che normalmente non producono insulina ma che sono destinate a fare altro, infatti, possono essere riprogrammate per farlo, in maniera da rimpiazzare le cellule colpite dal diabete.
Nello specifico, gli scienziati sono riusciti a convertire cellule pancreatiche umane in ‘fabbriche’ di insulina che, trapiantate nei topi, hanno tenuto a bada il diabete per sei mesi.
“Le cellule umane sono state molto efficienti, i topi non hanno più mostrato i segni della malattia”, afferma il coordinatore dello studio, Pedro Herrera. Il suo gruppo ha ottenuto questo risultato usando cellule pancreatiche umane di tipo alfa e gamma (che normalmente non producono insulina come fanno invece le cellule di tipo beta): prelevate da donatori sani e diabetici, le cellule sono state riprogrammate ‘accendendo’ due geni chiave (Pdx1 e MafA) per la secrezione di insulina. In seguito sono state raggruppate (formando strutture simili alle isole di Langerhans in cui si sviluppano le cellule beta) e poi sono state impiantate in topi diabetici.
“Come previsto, quando le cellule umane sono state rimosse, i topi sono tornati a essere diabetici”, spiega Herrera. “Abbiamo ottenuto – aggiunge – lo stesso risultato usando sia cellule da donatori diabetici che da sani e questo dimostra che la loro plasticità non è intaccata dalla malattia. Inoltre questo funziona nel lungo periodo: sei mesi dopo il trapianto, le cellule modificate e aggregate in isole hanno continuato a secernere insulina umana in risposta ad alti livelli di glucosio”. “E’ un risultato molto importante che dimostra la potenziale plasticità di cellule pancreatiche umane, non-beta – commenta Livio Luzi, docente di endocrinologia all’Università Statale di Milano – Occorre però molta cautela nel considerare la possibilità che tali risultati siano traslabili all’uomo nel breve-medio termine”.