Dieta chetogenica funziona, ma dopo una settimana…
27 Gennaio 2020 - di Silvia_Di_Pasquale
Una dieta chetogenica, che fornisce il 99 percento delle calorie da grassi e proteine e solo l’1 percento dai carboidrati, ha benefici per la salute a breve termine, ma effetti negativi dopo circa una settimana. E’ quanto emerge da uno studio sui topi, portato avanti dai ricercatori di Yale e pubblicato su Nature Metabolism.
Come si legge sul sito Medical X Press, la dieta cheto potrebbe, per periodi di tempo limitati, migliorare la salute umana riducendo il rischio di diabete e infiammazione. Ma quando i topi hanno continuato a seguire una dieta ricca di grassi e povera di carboidrati per oltre una settimana, hanno consumato più grassi di quanti ne possano bruciare e sviluppato diabete e obesità.
“Prima di poter prescrivere una dieta di questo tipo, è necessario un ampio studio clinico in condizioni controllate per comprendere il meccanismo alla base dei benefici metabolici e immunologici o di qualsiasi potenziale danno a soggetti in sovrappeso e pre-diabetici”, ha affermato Vishwa Deep Dixit, autore principale dello studio. Da questo quadro emerge che la dieta cheto è preferibile a piccole dosi, piuttosto che per un periodo superiore a una settimana.
La dieta chetogenica è risultata avere degli effetti positivi contro l’emicrania. Allo stesso tempo uno studio dell’Università della Finlandia orientale, pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition, è stato molto critico sulle diete proteiche. Questa ricerca ha individuato come gli uomini che prediligevano una dieta con molte proteine animali (più di 200 grammi al giorno) avevano un rischio maggiore di morte (+23%) nell’arco di 20 anni rispetto a chi faceva una dieta più equilibrata (con meno di 100 grammi al giorno di carne).
A partecipare allo studio sono state 2.600 persone e i ricercatori hanno selezionato chi mangiava principalmente carne rossa. La ricerca ha anche rilevato che un elevato apporto complessivo di proteine alimentari era associato a un maggior rischio di morte negli uomini a cui era stato diagnosticato, all’inizio dello studio, il diabete di tipo 2, le malattie cardiovascolari o il cancro.