Digiuno e dieta ipocalorica contro dolore cronico: lo studio
26 Agosto 2019 - di Silvia_Di_Pasquale
Il digiuno periodico può ridurre il rischio di malattie croniche tenendo a bada le cellule immunitarie infiammatorie. E’ quanto suggerisce uno studio del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) e del Mount Sinai Health System di New York City. Inoltre, un secondo nuovo studio suggerisce che mangiare meno calorie, abbastanza, ma non più di quanto un individuo abbia bisogno di nutrimento, può potenziare altre cellule immunitarie che combattono le infezioni.
“Tutti questi studi si sinergizzano per dimostrare che un semplice cambiamento nella dieta può avere un profondo effetto sul nostro sistema immunitario”, ha detto a DailyMail.com la dott.ssa Yasmine Belkaid, aggiungendo: “Credo che l’intervento nutrizionale sarà il futuro della medicina – un cambiamento nella dieta, un cambiamento nelle calorie e in alcuni nutrienti – in collaborazione con la medicina tradizionale per domare e manipolare il sistema immunitario”.
“Considerando l’ampio spettro di malattie causate dall’infiammazione cronica e il numero crescente di pazienti affetti da queste malattie, esiste un enorme potenziale nello studio degli effetti antinfiammatori del digiuno”, ha affermato il dottor Stefan Jordan della Icahn School of Medicine.
Già uno studio pubblicato in precedenza sulla rivista Faseb aveva parlato di digiuno. Un regime alimentare a base di pochissime calorie e condotto per periodi intermittenti potrebbe aiutare a ridurre il dolore cronico provocato da nevralgie. La ricerca ha identificato il possibile coinvolgimento di un nuovo recettore nella percezione del dolore dovuto a neuropatie periferiche.
Inoltre, il digiuno a intermittenza – a giorni alterni o per tre giorni a settimana – potrebbe, almeno in alcuni pazienti, ‘far regredire’ il diabete, consentendo di controllare la glicemia senza farmaci, ovvero di sospendere del tutto l’insulina e anche (in parte o completamente) gli altri farmaci prescritti per la malattia. E’ quanto suggerito una ricerca che ha coinvolto per ora solo tre pazienti e che è stata pubblicata sul ‘British Medical Journal Case Reports’.