Infarto, omega 3 aiutano anche il recupero
26 Ottobre 2016 - di Mari
BOSTON – Gli acidi grassi omega 3 aiutano a recuperare dopo un infarto. Fino ad oggi si conoscevano solo le proprietà di prevenzione di questi acidi grassi fondamentali, presenti in particolare nei pesci come sgombro e salmone e in alcuni alimenti come l’avocado e l’olio di pesce. Ma uno studio americano condotto dal Brigham and Women’s Hospital di Boston rivela che gli omega 3 aiutano anche dopo l’attacco cardiaco: assumerli quotidianamente, infatti, aiuterebbe a ridurre gli esiti cicatriziali favorendo anche il miglior pompaggio del sangue.
I ricercatori, spiega Francesca Morelli sul sito della Fondazione Veronesi, hanno seguito 360 pazienti infartuati, suddividendoli in due gruppi, di cui il primo sottoposto a terapia con un integratore a base di omega 3 da assumere quotidianamente, l’altro ad un placebo.
I pazienti sono stati valutati con risonanza magnetica all’inizio e al termine dello studio e monitorati da esperti. Sei mesi dopo l’inizio della terapia è stata osservata una riduzione delle fibrosi nella regione del cuore colpita dall’infarto e un miglior pompaggio del sangue da parte del muscolo cardiaco.
Come ha sottolineato Raymond Kwong, direttore della risonanza magnetica cardiaca del Brigham and Women’s Hospital,
“A seguito di un infarto una parte del muscolo muore e la restante è costretta a compiere un extra lavoro per pompare il sangue, con la diretta conseguenza, per via delle condizioni di fragilità in cui la pompa cardiaca opera, di sviluppare cicatrici a livello dei tessuti. Nel corso del tempo questi due processi possono portare a insufficienza cardiaca, un rischio piuttosto comune fra gli infartuati, sebbene la sopravvivenza a un infarto sia oggi notevolmente migliorata grazie all’efficacia e al perfezionamento delle terapie”.
Assumere omega 3, inoltre, sembra abbassare il rischio di recidive e di mortalità. Da uno studio pubblicato sull’American Journal of Cardiology è infatti emerso che l’assunzione di acidi grassi omega 3 può ridurre, nell’anno successivo all’inizio della terapia, le probabilità di un secondo evento cardiovascolare non letale, con una percentuale del 35%, o di abbassare i decessi anche di oltre il 24%.