L’identikit del “depresso”: donna, giovane, precaria
12 Marzo 2012 - di marina_cavallo
Giovani, depressi e disoccupati (o superlavoratori). Più spesso donne. Un ritratto abbastanza calzante di chi soffre di depressione in Italia, almeno stando ai risultati di un’indagine condotta su oltre settemila italiani nell’ambito di un sondaggio internazionale condotto da Kanthar Health per AstraZeneca, che ha coinvolto più di 57 mila europei anche in Francia, Germania, Regno Unito e Spagna. Scopo, tracciare l’identikit della malattia oggi cercando di capire come vivono i pazienti, quali problemi affrontano più spesso sul lavoro o nella vita quotidiana, quali disturbi si accompagnano alla depressione. Innanzitutto, si scopre che circa un italiano su dieci ha convissuto con il “male oscuro” nel corso degli ultimi dodici mesi: un dato non molto diverso da quelli registrati negli anni scorsi che se non altro fa tirare un sospiro di sollievo, la depressione non è in aumento come alcuni sospettano. «Semmai, oggi la conosciamo meglio rispetto al passato per cui ci accorgiamo di casi che prima restavano nell’ombra — osserva Liliana Dell’Osso, direttore della Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa —. La nostra società è molto competitiva, chiede “prestazioni” sempre maggiori e questa pressione fa emergere anche i quadri depressivi più lievi: oggi pure sintomi blandi possono rivelarsi incompatibili con l’efficienza e la produttività 24 ore su 24».
Non a caso una ricerca finlandese di poche settimane fa ha avvertito: chi fa spesso gli straordinari lavorando 11 ore al giorno ha una probabilità due volte maggiore di ammalarsi. Ne sanno qualcosa le donne, a rischio doppio di depressione grave rispetto agli uomini: «Sono più esposte a fattori stressogeni: per loro mantenere un lavoro e un reddito è più complicato, pure la gestione del tempo è difficile visto che sono molte di più le ore di lavoro domestico e cura familiare in più sulle spalle del sesso femminile — spiega Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Azienda Ospedaliera Fatebenefratelli di Milano —. Inoltre le donne sono più spesso vittime di violenze in ambito domestico e non, e questo è uno dei fattori “ambientali” che più incidono sul rischio di ammalarsi». L’indagine segnala che i depressi sono mediamente giovani e altri studi confermano che l’età d’esordio si sta abbassando, a volte al di sotto dei 20 anni probabilmente a causa delle sostanze di abuso, come alcol o droghe. Ma quello che più colpisce fra i dati raccolti è l’evidente difficoltà dei pazienti sul lavoro e nelle relazioni sociali: i depressi hanno più raramente degli altri un posto a tempo pieno, sono più spesso in cerca di un’occupazione, in un caso su tre denunciano un reddito basso. Chi un impiego ce l’ha è costretto ad assentarsi di frequente per colpa della malattia, o magari va in ufficio ma senza combinare granché: conseguenza, un calo della produttività consistente rispetto a chi non deve fare i conti con un disturbo dell’umore.
I depressi sono inoltre più spesso single, divorziati, separati o vedovi: la vita a due è allora un “antidoto” alla depressione? «La solitudine e la carenza di relazioni sociali sono uno stress per l’individuo, per cui sono effettivamente depressogeni: basti pensare che esistono modelli sperimentali di depressione prodotti proprio isolando a lungo gli animali — risponde Dell’Osso —. Detto ciò tutti gli eventi di vita con un impatto emotivo, dai lutti alla perdita del lavoro, dall’interruzione di relazioni significative alle difficoltà economiche, agiscono sempre su una suscettibilità genetica alla malattia. E tanto più si è predisposti, tanto minore è il “peso” dell’evento stressante sufficiente a far precipitare un episodio di depressione». «Bisogna comunque sottolineare che la depressione è molto “democratica”: è vero che le forme più gravi sono un po’ più comuni nelle fasce sociali svantaggiate, magari perché si sono cronicizzate in assenza di cure, ma casi di depressione si hanno ovunque, in tutti gli ambienti e a tutti i livelli sociali — interviene Giulio Perugi, docente di Farmacoterapia psichiatrica all’Università di Pisa —. Anzi, la forma bipolare è spesso propria di soggetti con evidenti doti di leadership o creatività: moltissimi politici, scrittori e artisti del presente e del passato ne hanno sofferto. La bipolare peraltro è la depressione che più spesso colpisce in giovane età; andando avanti negli anni tendono a prevalere le depressioni connesse a eventi esterni».
Di certo la malattia facilita stili di vita poco sani: fra i depressi sale rispetto al consueto la percentuale di fumatori, di sedentari e quindi anche di persone alle prese coi chili di troppo. E come se non bastasse, di rado la depressione viene da sola: praticamente tutti i pazienti soffrono di qualche altro problema di salute, dal l’ansia al mal di testa, dai disturbi del sonno al colesterolo alto. Ma anche reflusso gastrico, dolori addominali, colon irritabile, aritmie, artrite, dermatiti: quasi tutte le malattie prese in esame dall’indagine risultano più frequenti nei depressi rispetto alla popolazione generale. «La compresenza di depressione e patologie cardiovascolari, metaboliche, endocrine, autoimmuni e neurologiche è un dato di fatto — conferma Mencacci —. Le nuove frontiere della ricerca sono proprio dedicate a capire perché sia così e quali siano gli elementi in comune delle diverse malattie. Sappiamo che il diabete, ad esempio, condivide alcuni meccanismi patogenetici con la depressione: si attivano infatti in entrambi i casi cascate di risposte infiammatorie, come la produzione di citochine che interferiscono con l’azione dell’insulina. La compresenza di malattie può essere pericolosa: chi ha avuto un infarto e soffre di depressione ha una mortalità più elevata e non per colpa di fattori emotivi, bensì perché la depressione aumenta la coagulazione del sangue. Dobbiamo perciò considerare la depressione come una malattia sistemica e biologica, che coinvolge più apparati e spesso è solo una faccia di un complesso “squilibrio” dell’organismo». Non di rado la depressione viene proprio a seguito di malattie come diabete, patologie cardiovascolari, polmonari; o magari dopo aver usato certi farmaci, da alcuni antipertensivi alla pillola contraccettiva se si è particolarmente sensibili agli ormoni, dagli interferoni ai medicinali anticancro. Tutte prove che dimostrano come l’umore diventi “nero” perché nei delicati equilibri che governano l’organismo qualcosa si inceppa. «Non è insomma un mero malessere psicologico, ma una patologia come le altre, che con altre malattie è spesso strettamente connessa e come loro deve essere riconosciuta e curata, senza paura né vergogna», conclude Mencacci.
di Elena Meli
(fonte Corriere Salute)