Sindrome del colon irritabile: cibo ultra processato nel mirino. Lo studio
19 Luglio 2021 - di Silvia_Di_Pasquale
Mangiare cibo ultra-processato è associato a un rischio maggiore di malattia infiammatoria intestinale (IBD), meglio nota come sindrome da colon irritabile.
E’ quanto emerge da uno studio pubblicato da The BMJ e citato dal sito americano Medical X Press.
La sindrome dell’intestino irritabile, un tempo definita “colite spastica”, si presenta con un fastidio o dolore addominale, che migliora dopo l’evacuazione.
L’intestino può essere stitico, diarroico oppure di tipo misto, ossia con alternanza fra stipsi e diarrea.
I risultati dello studio.
Tra gli alimenti coinvolti nello studio ci sono snack confezionati, bevande gassate, cereali zuccherati, pasti pronti contenenti additivi alimentari e carne e prodotti ittici ricostituiti.
Cibi che contengono alti livelli di zuccheri aggiunti, grassi e sale, ma sono allo stesso tempo privi di vitamine e fibre.
Il team internazionale di ricercatori ha attinto a informazioni dietetiche dettagliate da 116.087 adulti di età compresa tra 35 e 70 anni.
I partecipanti vivono in 21 paesi a basso, medio e alto reddito, tutti convolti nello studio Prospective Urban Rural Epidemiology (PURE).
Dopo aver preso in considerazione altri fattori potenzialmente influenti, i ricercatori hanno scoperto che una maggiore assunzione di alimenti ultralavorati era associata a un rischio più elevato di sindrome da colon irritabile.
Gli studiosi hanno riscontrato un aumento del rischio di IBD dell’82% tra coloro che consumavano cinque o più porzioni al giorno e un aumento del rischio del 67% per 1-4 porzioni al giorno.
Prodotti come bevande analcoliche, cibi dolcificati raffinati, snack salati e carne lavorata, sono risultati associati a maggiori rischi di IBD.
Mentre l’assunzione di carne bianca, carne rossa, latticini, frutta, verdura e legumi (come piselli, fagioli e lenticchie) non è risultata associata a IBD.
Ma attenzione: si tratta di uno studio osservazionale, basato su diagnosi auto-riferite dai partecipanti.
“Sono necessari ulteriori studi per identificare specifici potenziali fattori contributivi tra gli alimenti trasformati che potrebbero essere responsabili delle associazioni osservate nel nostro studio”, fanno sapere gli studiosi.