Armstrong confessa: “Mi sono dopato. Altrimenti impossibile vincere 7 Tour”
18 Gennaio 2013 - di Claudia Montanari
ROMA – È avvenuta lunedì scorso in un albergo di Austin quella che doveva essere una chiacchierata -e che poi è diventata un’intervista davvero bollente- tra la giornalista Oprah Winfrey e l’ex corridore statunitense Lance Armostrong. Intervista divisa poi in due “show” dall’Oprah Winfrey Network in cui Armstrong ha vuotato il sacco: “È stata tutta una grossa bugia. Mi sono dopato per vincere i 7 Tour. Altrimenti, sarebbe stato impossibile. Ora chiedo scusa e pago il prezzo”. Così Armstrong alza bandiera bianca dopo anni di bugie e risponde con una raffica di “yes” alle domande della regina dei talk show sull’uso di Epo, trasfusioni, testosterone, ormone della crescita.
Senza doping, insomma, non sarebbe stato possibile vincere i t Tour de France vinti tra il 1999 e il 2005: “Non secondo me”.
E perché dopo 13 anni di continue smentite, Armstrong ha deciso di dire la verità adesso?: “Perchè ora? è la domanda migliore, la più logica. Non so se ho la risposta giusta. Comincerò dicendo che è tardi per molte persone ed è colpa mia. È stata una grande bugia ripetuta tante volte”, dice pensando ad una “storia perfetta” (“Battere la malattia, vincere 7 Tour, un matrimonio felice”) che “non era vera”.
Alla fine, dice, era diventato “impossibile” continuare. Il doping, ripete Armstrong, era l’unica soluzione per vincere. “Non ho inventato io quella cultura, ma non ho provato a fermarla. E di questo devo scusarmi, è qualcosa per cui lo sport ora sta pagando un prezzo. Mi dispiace” ma “io avevo accesso a quello che era disponibile per tutti”. Farebbe qualsiasi cosa per la vittoria? “In linea di massima. Vincere era importante, è importante. Voglio ancora vincere, ma adesso vedo le cose in maniera un po’ diversa. Molte mie risposte oggi sarebbero differenti”.
L’usada, agenzia antidoping statunitense, ha giudicato quello in cui era coinvolto Armstrong uno dei più complessi sistema antidoping mai visto, ma lui ribatte la sua perplessità in merito: “No. Era professionale, senz’altro scaltro ma anche molto prudente. Ma non è vero che fosse un programma più ampio rispetto a quello della Germania Est degli anni ’70 o ’80: non è vero”.
L’Usada ha poi radiato Armstrong, assegnandogli uno dei ruoli cardine: “Io ero il leader del team ma non il general manager o il direttore sportivo. Il leader dà l’esempio, ma non c’è mai stata un’imposizione dall’alto. Eravamo tutti adulti e ognuno ha fatto la propria scelta. Qualcuno ha deciso di non farlo”.
“C’erano situazioni gestite come se fosse un’organizzazione mafiosa: c’erano parole d’ordine per alcune cose, avevamo telefoni riservati e codici segreti. Usavamo parole come Poe o Edgar Allan Poe per l’Epo”, dice.
Poi parla delle sostanze che assumeva: “Epo, ma non molto, trasfusioni e testosterone. Ero quasi giustificato a prendere il testosterone perché, visto che avevo avuto il cancro ai testicoli, il livello doveva essere basso”. Tutto programmato in vista delle competizioni con la consapevolezza che i controlli si sarebbero svolti solo in gara: “A quei tempi, non venivano a casa tua. Non sono mai risultato positivo, ma alcuni campioni sono stati ricontrollati e tecnicamente non li ho superati”.
Tra gli “errori”, spiega Armstrong, non c’è il Tour de France 2009, quello chiuso al terzo posto dopo il clamoroso ritorno alle competizioni: “È l’unica cosa che mi fa davvero arrabbiare. Non mi sono mai dopato dopo il mio ritorno, ho superato il limite per l’ultima volta nel 2005”, dice rivendicando la ‘pulizia’ del 2009 e del 2010. “Mi pento di essere tornato nel 2009? Se non fossi rientrato, ora non saremmo qui”. Tutta la vita, e non solo la carriera, è stata dominata dall’irrefrenabile desiderio di vincere a tutti i costi”.
Ed è proprio grazie al doping, spiega, che “le vittorie erano quasi automatiche. Era come gonfiare le gomme, come mettere l’acqua nelle borracce”. Ora, però, “mi vergogno assolutamente”. Il pensiero va al discorso tenuto dopo l’ultimo trionfo al Tour nel 2005: “Mi sono ritirato subito dopo. Ci si può congedare in maniera migliore. Quella faceva schifo”, dice ora. All’epoca, però, non si sentiva un imbroglione: “Non la vedevo così, pensavo di competere allo stesso livello degli altri”.
Armstrong ha dato battaglia all’Usada quando ha saputo che il suo caso, un anno fa, sarebbe stato riaperto: strategia sbagliata, dice ora. “Non combatterei, ascolterei. Loro sono venuti da me dicendo: ‘Che vuoi fare?’. Se tornassi indietro, direi: “Datemi 3 giorni, fatemi chiamare la mia famiglia e un po’ di gente. Fatemi chiamare i miei sponsor e la mia fondazione per dire cosa sto per fare”.
Questo, purtroppo, non è possibile.